Un Pezzo di Ricambio

Un Pezzo di Ricambio

Di Cristina Obber

Italia 2024: Satnam Singh, bracciante di origine indiana di 31 anni, perde un braccio in un incidente sul lavoro, lavoro nero.

Nessuno chiama l’ambulanza.

“Il padrone” lo carica su un pulmino e lo scarica davanti alla sua abitazione, dove scarica anche l’arto mutilato, in una cassetta della frutta.

I soccorsi arrivano ma è troppo tardi e poco dopo Satnam Singh muore.

Satnam Singh si sarebbe potuto salvare se fosse stato trattato come un essere umano, o anche come un cavallo, una mucca, una capra che fa del buon latte.

Invece Satnam Singh era soltanto “un indiano”, un pezzo di ricambio in un ingranaggio che ogni tanto si inceppa ma si fa ripartire il più presto possibile per non rallentare la produzione.

I pezzi di ricambio non mancano, la sostituzione è veloce e a costo zero.

Dei pezzi di ricambio difettosi ci si sbarazza velocemente, ripararli costerebbe più che sostituirli, e nessuno ha tempo da perdere, tanto meno ha voglia di scocciature come gente che ficca il naso e fa domande inutili, che tanto il funzionamento dell’ingranaggio è ben collaudato da decenni, le scocciature arrivano e se ne tornano da dove sono venute senza scombinare niente.

L’attenzione su questa storia disumana non va però concentrata sul “padrone” né sul padre che anziché disperarsi per ciò che ha fatto il figlio si dichiara risentito per la scarsa qualità di quel pezzo di ricambio indiano e dunque è anch’egli scocciato -anziche scioccato- dagli accadimenti.

Il “padre padrone” -e non mi si rimproveri i riferimenti simbolici al patriarcato- non trova disumano l’agire del figlio perchè non c’è nulla di disumano nel disfarsi di un pezzo di ricambio difettoso, nel tutelare il proprio lavoro e i propri interessi. L’impresa questo fa, per definizione.

La nostra attenzione dovrebbe spostarsi dai due individui sulla scena del crimine. Sono parte di qualcosa di più vasto, che va al di là di loro.

Complice certo anche l’assenza di una classe politica -bipartisan- che da decenni si gira dall’altra parte e lascia che il caporalato, salvo qualche scocciatura ogni tanto, proceda indisturbato nel consolidamento di un sistema di schiavitù che garantisce ottimi profitti.   

Complice è la nostra coscienza di consumatrici e consumatori che controlla -giustamente- che ci sia l’adesivo Green sul detersivo ma non si chiede chi -e come- raccoglie i pomodorini che mettiamo nel carrello in quel grazioso cestino di cartone - forse perchè la risposta è nota e implicherebbe la fatica di indignarsi. 

Penso che il nostro sguardo dovrebbe cercare altrove le risposte, farsi nuove domande al di là degli attori.

Cosa permette a un qualsiasi “padrone” - chissà quanti altri hanno potuto contare negli anni su maggiore omertà, paura e silenzio - di pensare di poter agire in quel determinato modo senza finire i propri giorni in carcere per il resto dei suoi giorni?

Cosa ha fatto sì che un essere umano potesse sentirsi legittimato a non riconoscere lo status di essere umano a un altro essere umano?

Nel suo saggio “Riconoscimento”, il filosofo Axel Honneth ci ricorda, citando Hegel, quanto la nostra reciproca capacità di riconoscerci nell’alterità sia condizionata dal diverso peso valoriale che l’ordine sociale dominante attribuisce agli esseri umani in un determinato contesto sociale. Honneth ci dice che l’idea di riconoscimento è la coscienza di una reciproca appartenenza.

Chiediamoci a che punto sta la nostra coscienza, individuale e collettiva, rispetto all’Altro. A un diverso da noi in cui non sappiamo più riconoscerci, rispecchiarci, in una reciproca legittimazione dei nostri  diritti, doveri, delle nostre libertà. A un diverso da noi che dovrebbe e potrebbe invece alimentare un Noi che fortifica, che ci emancipa come specie dall’egoismo e dagli istinti più cupi e nefasti.

Chiediamoci se ciò che è accaduto a Satnam Singh non rappresenti lo specchio torbido delle nostre contraddizioni, confusi e infelici.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea parla di dignità umana nel suo primo articolo, e dice che “la dignità umana è inviolabile; essa deve essere rispettata e tutelata”.

Quanto rispettiamo? Quanto tuteliamo e ci impegnano per tutelare?

Quante volte disconosciamo questo principio fondamentale nella convivenza civile tra esseri umani?

Satnam Singh non era, “l’indiano”.

Era Satnam Singh, aveva 31 anni e lavorava a testa bassa per pochi euro l’ora insieme alla moglie, risparmiavano per costruirsi una vita dignitosa. Dignità, appunto.

Ma in questa vicenda Satnam Singh non è una persona.

È una non-persona, parafrasando la descrizione che dei migranti fa Alessandro Dal Lago in un suo saggio.

In questa vicenda Satnam Singh non è nemmeno un uomo, o meglio ancora, è un uomo invisibile. E noi, con quale sguardo ci guardiamo vicendevolmente?

Rileggo il libro “Uomo invisibile” di Ralph Ellison, che inizia così:

“Sono un uomo di sostanza, di carne e ossa, di fibre e umori. Si potrebbe perfino affermare che ho un cervello. Sentite, sono invisibile per il semplice fatto che la gente si rifiuta di vedermi. Come le teste senza corpo che vedete al circo tra i fenomeni da baraccone, mi sento circondato da specchi deformati di vetro durissimo.

Quando la gente mi incontra vede solo tutto intorno, e vede se stessa e vede i frutti della sua immaginazione: insomma proprio tutto all’infuori di me.

E la mia invisibilità non è un problema di biochimica, non è un fatto di epidermide. L’invisibilità di cui parlo si verifica per via di una disposizione peculiare degli occhi di quelli che incontro”.