Se smettessimo di guardare solo i film occidentali, forse capiremo che non siamo i migliori in tutto

Se smettessimo di guardare solo i film occidentali, forse capiremo che non siamo i migliori in tutto

Uscivo dalla sala dopo la proiezione del film Nezouh (2022) di Soudade Kaadan, con quella sensazione, che senti dopo un bel film, di continuare a viverci dentro, ed ho sentito immediatamente l’esigenza di scrivere un articolo come questo. 

In una Damasco distrutta dalla guerra una famiglia è costretta a vivere in un appartamento squarciato dai bombardamenti; mentre il padre sembra deciso a rimanere e fare di tutto per difendere la sua terra, la moglie e la figlia adolescente Zeina sono propense a scappare, lasciando tutto quanto alle loro spalle. 

Per la prima volta al cinema ho assistito ad un racconto di semplice quotidianità (per quanto possa essere semplice lo scenario di una Damasco distrutta dalla guerra ) di una famiglia araba narrata senza pregiudizi e negatività. 

Questo mi ha portato a riflettere sui contenuti dei film con cui sono cresciuta, totalmente diversi da Nezouh, e sono arrivata ad una conclusione molto semplice e, a mio vedere, piuttosto profonda, meritevole almeno di una riflessione: 

“impariamo a stare al mondo guardandoci intorno, non fermiamoci a quello che ci hanno messo davanti. Una realtà esiste per noi quando possiamo guardarla e toccarla, è intorno a noi ed è senza confini.”

La percezione che abbiamo della realtà che ci circonda non è altro che il risultato della narrazione che ci viene presentata in un determinato momento. 
La narrazione è un’attività fondamentale, utilizzata da sempre nella storia dell’essere umano con lo scopo di attribuire significati a tutto ciò che lo circonda (Jerome Seymour Bruner). 

In questo processo che sembrerebbe essere quasi pedagogico (lo è), i media svolgono un ruolo fondamentale. I media, prima quelli tradizionali e oggi anche i social media, influenzano nel suo insieme la società e da essa vengono a loro volta influenzati. La cultura, la politica, l’economia di un paese non sono altro che il frutto delle sue rappresentazioni e viceversa, le sue rappresentazioni non sono altro che proiezioni mediate della realtà. 
Il Cinema è sempre stato, fin dalla sua nascita, fondamentale in questo percorso. 

Il cinema è il mezzo più potente che abbiamo per conoscere la realtà che ci circonda, grazie anche alla semplicità di lettura dei suoi contenuti: rispetto ad altri mezzi di comunicazione, come può essere il teatro piuttosto che il giornalismo o la scrittura, che nella loro fruizione e nella comprensione del messaggio richiedono un adeguato impegno, il cinema risulta di semplice impatto e comprensibile a tutti. 

Il cinema fin dalle sue origini nasce per essere un mezzo popolare e ciò ha permesso a questo medium di diventare, forse senza volerlo, un mezzo pedagogico di massa.
In tutto il percorso storico del ‘900 è stato il fondamentale testimone dei momenti più importanti. 

Però, come tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione per raccontare (e quindi comprendere) il mondo, anche il cinema è caduto nella trappola della narrativa Occidentale. Processo questo del tutto spontaneo e prevedibile perché è scritto nella premessa: l’uomo va a raccontare ciò che conosce, che vede e che sente ogni giorno

In Italia, dagli anni ’20 e poi con l’avvento del sonoro, abbiamo assistito ad una distribuzione cinematografica che percorre due vie parallele: 

  1. da una parte la distribuzione di film italiani (scritti e diretti da registi italiani) che non sono altro che lo specchio della società;
  2. dall’altra la proiezione di film importati dagli Stati Uniti che vedono affermarsi il modello e il “sogno” americano, con il sostegno del monopolio di Hollywood e il trionfo dello Studio System americano nel mercato occidentale. 

Questo secondo punto dimostra come sia semplice conoscere (e riconoscersi) in altre realtà pur non vivendole, se le storie di certe realtà ci vengono raccontate più volte nel corso della nostra vita. 

È diventato quindi del tutto normale vedere un film western ambientato nel Sud Dakota, Utah o in Arizona sul nostro schermo con protagonisti cowboys e sceriffi, o un action ambientato nella caotica New York degli anni ‘90, riconoscendoli parte della nostra realtà. 

Questo processo ha avuto spinta facile soprattutto grazie alla liberazione (e “occupazione” economico-culturale) dell’Italia dalla fine della seconda guerra mondiale in poi: la presenza statunitense sul territorio italiano ha segnato in qualche modo il futuro culturale, politico ed economico del Paese. 



Da quel momento il pubblico italiano si è trovato davanti ad una diffusione di film e contenuti che appaiono da un unico punto di vista, quello Occidentale, illudendosi così che quella fosse l’unica realtà che avesse importanza di esistere. 

L’assenza di contenuti non occidentali distribuiti sul nostro territorio ha portato il pubblico a pensare – per poi dare fondamenta al nostro immaginario sociale - che ciò fosse dovuto ad una mancanza culturale e cinematografica negli altri paesi del mondo. Di conseguenza la percezione che si è sviluppata nel contesto sociale gira intorno alla narrativa secondo la quale queste sotto-realtà sono state poi presentate e raccontate. Avremo quindi la creazione di personaggi stereotipati - come la donna araba sottomessa e poco emancipata, l’immigrato analfabeta e pericoloso o l’arabo terrorista - luoghi comuni e film come American Sniper (2014) o Argo (2012) contribuiranno poi a dare un’idea di questi popoli e di queste terre del tutto limitata e sbagliata, senza garantire uno sguardo autentico e completo. 

In realtà fuori dai nostri confini, altri paesi hanno sviluppato percorsi cinematografici autonomi e indipendenti coerenti con il loro sviluppo sociale ed economico, alcuni basati sullo Star System, altri sul Cinema d’Autore e altri sul cinema di genere. 

Il cinema Giapponese, diffuso in Europa e negli Stati Uniti solo dal 1951 in poi quando alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia fu assegnato il Leone d’Oro al film Rashomon (1950) di Akira Kurusawa (e da questo momento in poi il pubblico e la critica furono esposti maggiormente a film giapponesi grazie a registi come Ozu, Oshima e Kitano), nacque a fine ‘800, all’alba dei primi anni del ‘900, in contemporanea a quello europeo e da allora ha sempre visto una produzione regolare di film, che si ispiravano al teatro nazionale, portando avanti negli anni una sostanziale e fedele identità del paese. 

Anche il cinema Indiano ha sviluppato un suo percorso cinematografico significativo, opposto al modello Occidentale, costruendo il suo successo nel mercato indiano unendo il cinema all’industria discografica: Bollywood si fonda sul divismo in modo ancora più rilevante rispetto al divismo hollywoodiano. 

Oppure quando si pensa al cinema verità, che si tende a collegare immediatamente al Neorealismo italiano o al Cinema Veritè della Nouvelle Vague - e in alcuni casi al cinema d’avanguardia sovietico di Vertov - non rendendoci conto della presenza di tanti altri cineasti, in giro per il mondo, che vedono nel mezzo cinematografico lo strumento ideale di denuncia sociale, unendo il linguaggio romanzesco a quello documentaristico. 

Ad esempio Jafar Panahi, regista iraniano affermatosi a metà degli anni ‘90, che sviluppa nella sua poetica una riflessione sul cinema e sul suo rapporto col reale, unendo lo stile narrativo a quello documentaristico. Panahi si affermò presto come uno dei cineasti iraniani più influenti, e questo lo portò ad avere diversi conflitti con il governo iraniano, tra i quali arresti e accuse di propaganda antigovernativa. 

Panahi è senza dubbio uno dei registi contemporanei più politicamente esposti: in Offside (2006) racconta la storia di alcune ragazze decise ad andare a vedere una partita di calcio nonostante la legge lo proibisca, in Orso Rosso (2003) ricostruisce la storia di una rapina finita in tragedia, per denunciare il classismo e la violenza della società iraniana e nell’ultimo film No Bear (2022), presentato alla 79° mostra di Venezia, ci racconta la vita in Iran e la contrapposizione fra chi ha voglia di fuggire da quella situazione e chi invece decide di restare, combattere e resistere, come fa lui. Così come Jafar Panahi, anche Elia Suleiman, regista palestinese, nei suoi film si ritrova a rappresentare la quotidianità della sua Palestina, tra comicità e surrealismo, contribuendo alla diffusione di una narrazione fedele sulla questione palestinese. 

Spostandosi invece verso il continente africano, altri registi come Ousmane Sembène, scrittore e regista senegalese o Nabil Ayouch, regista e sceneggiatore marocchino e Idrissa Ouédraogo, regista più noto del cinema del Burkina Faso, sono stati fondamentali nella costruzione di una nuova narrativa nei loro paesi seppur, in alcuni casi, in maniera provocatoria. 

Conflitti generazionali e tematiche sociali, legati alle conseguenze del colonialismo, sono nel loro cinema la chiave di lettura. 

La noir de…(1966) di Sembène, racconta le difficoltà di una giovane donna domestica senegalese nella Francia post coloniale, smascherando il razzismo e i comportamenti coloniali, ancora oggi presenti, che ne derivano. 

Zin li fik (2015) di Nabil Ayouch invece racconta la quotidianità di quattro donne costrette a prostituirsi per vivere a Marrakech, denunciando la prostituzione e interrogando il pubblico sulle cause che portano le donne alla strada.

Senza dubbio queste storie raccontate da chi le vive, non possono che risultare autentiche e  originali. 
Una distribuzione costante di questi contenuti non potrà che arricchire l’offerta nel nostro mercato portandoci ad avere una maggior consapevolezza del mondo, cambiando così la percezione collettiva. 

Se ognuno di noi dedicasse la stessa energia e lo stesso interesse che usa nell’aspettare il nuovo film degli Avengers o l’ultimo Action con Tom Cruise, per guardare ogni tanto film di spessore, non occidentali, forse la percezione singola di ognuno, pian piano, cambierebbe; la realtà diventerebbe più vera e smetteremmo di pensare di essere i migliori e i primi arrivati in tutto.