Repressione e dissenso in Kanaky/Nuova Caledonia: comprendere le rivolte in corso contro l’apertura del corpo elettorale
Di Martino Miceli
Un territorio strategico dell’Oltre-mare francese
A seguito dell’esplosione degli scontri che hanno infiammato la Nuova Caledonia (o “Kanaky”, per gli indipendentisti), il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha deciso di proclamare il 15 maggio lo stato d’emergenza, previsto fino al 28 maggio alle ore 20:00 di Parigi, che sono le 5:00 del fuso orario di Nouméa, il capoluogo del territorio. L’arcipelago, che il comitato di decolonizzazione dell’ONU ha reiscritto nel 1986 all’interno della lista dei territori non autonomi, si trova infatti a ben 15.811 km di distanza dall’antica potenza coloniale, che ne prese possesso nel 1853, facendone una colonia d’insediamento sul modello delle vicine Australia e Nuova Zelanda.
Oggi la “Nuova Caledonia” è infatti giuridicamente ancora una “collettività” francese, ovvero una suddivisione amministrativa della Repubblica dotata di un proprio statuto. Il territorio “ultra-marino” (come si chiamano i possedimenti francesi fuori dall’Europa: “l’Oltremare”) ha conquistato un’autonomia politica unica nel suo genere: il paese possiede un congresso e un proprio governo, che esercita le funzioni parlamentari, varando specifiche leggi su determinate sfere della vita pubblica. Questi organismi sono il frutto del processo di pacificazione tra le diverse comunità che segue gli “eventi”, come sono chiamati gli anni di mobilitazioni indipendentiste intercorse tra il 1984 e il 1988.
E’ dalla firma degli accordi di Matignon-Oudinot nel 1988 che questo paese, poco più esteso in superficie della nostra Toscana ma che possiede un’enorme spazio marittimo, zona economica esclusiva (ZEE), e tra le più importanti riserve di nichel del pianeta, attraversa un processo di decolonizzazione negoziata tra lo Stato francese, gli esponenti della destra “lealista” (coloro che vogliono il mantenimento della Nuova Caledonia nella Francia) e gli indipendentisti del Fronte di Liberazione Kanak Socialista (FLNKS), sostenuto dalla maggioranza dei Kanak. Sebbene il termine “kanak” possa significare molte cose, tra le quali l’ipotesi di una futura nazionalità “kanak” per tutti gli abitanti aldilà delle origini etniche dei singoli, ad oggi la parola indica il popolo autoctono oceaniano che abitava le isole prima della colonizzazione. Stando alle stime dell’Istituto neocaledone per la statistica e l’economia (ISEE) del 2019, i Kanak rappresentano il maggior gruppo etnico neo-caledone (attorno al 40%) pur costituendo una minoranza!
A partire dalla fine del XIX secolo, la popolazione originaria è stata infatti segregata in apposite riserve e sottoposta a un codice derogatorio del diritto comune francese, riservato ai sudditi coloniali (i Kanak hanno infatti ottenuto la cittadinanza francese solo dopo la Seconda Guerra Mondiale), detto dell’Indigenato. Sotto questo regime, comune sotto diverse formule a tutto il vecchio impero coloniale francese, i Kanak non potevano lasciare la riserva alla quale erano assegnati che sotto permesso speciale ed erano obbligati a prestare servizi gratuiti per i coloni e l’Amministrazione coloniale.
Se un tempo il possesso dell’arcipelago era motivato dalla competizione con gli inglesi per il controllo del Pacifico meridionale, la presenza francese serve oggi a mantenere un avamposto chiave per realizzare la strategia indo-pacifica: l’intenzione, ovvero, di riaffermare la presenza geopolitica francese negli oceani Indiano e Pacifico, in quello che si configura come uno delle aree più importanti del prossimo futuro, l’Oceania. Quest’ultima rappresenta un continente enorme, che lo scrittore fijiano Epeli Hau’ofa descriveva come “un mare di isole”, e che costituisce il ponte naturale tra gli Stati Uniti, gli stati eredi dal colonialismo d’insediamento anglosassone (Australia, Aotearoa-Nuova Zelanda, Canada) e i nuovi attori economici asiatici, come il Giappone, “Taiwan” e, infine, la Cina, vero nemico da colpire.
Trent’anni di decolonizzazione negoziata
Davanti a questa complessità, il più noto tra i dirigenti del FLNKS, Jean-Marie Tjibaou, sosteneva che il popolo kanak dovesse riavere indietro la propria sovranità per negoziare da solo le proprie inter-dipendenze con gli Stati e le economie vicine. Lo stato d’emergenza si inserisce in una rimessa in questione radicale dell’emancipazione desiderata da Tjibaou e del processo di decolonizzazione del territorio che va avanti da più di trent’anni. L’accordo di Nouméa, firmato nel 1998 dai rappresentanti di Stato, quelli del FLNKS e i dirigenti dei partiti della destra anti-indipendentista locale, prevedeva infatti l’organizzazione di tre distinti referendum di autodeterminazione, realizzati nel 2018, 2020 e 2021. I referendum erano finalizzati a chiamare la popolazione iscritta su una specifica lista elettorale, la LESP (Lista elettorale provinciale speciale), a esprimersi sulla piena sovranità del paese.
L’accordo di Nouméa sancisce, infatti, assieme al riconoscimento dell’identità kanak come fondamento dell’identità neo-caledone, il progetto di costruzione di una vera e propria cittadinanza, i cui confini sono sanciti proprio dalla possibilità di partecipare alle elezioni del Congresso e a quelle provinciali. A partire dagli articoli 188 e 189 della legge organica del 19 marzo 1999, la Costituzione francese, per la prima volta nella sua storia, ha infatti riconosciuto per via referendaria l’esistenza di un “corpo elettorale ristretto” in Kanaky.
Riconfermato nella legge costituzionale del 23 febbraio 2007, il corpo elettorale ristretto costituisce la base del processo di decolonizzazione: limitando l’accesso alle urne a nuovi residenti immigrati dall’Europa e dai paesi vicini, la norma consente alla popolazione kanak di mantenere un peso politico importante nonostante non rappresenti la maggioranza statistica della popolazione totale.
Benché allora la LESP permetta di iscriversi a gran parte degli immigrati europei e dei loro discendenti, le regole in vigore prevedono una residenza dimostrabile da parte dell’elettore (la propria o quella dei propri genitori) nei dieci anni precedenti agli accordi di Matignon-Oudinot, ovvero dal 1988. Nei fatti, l’esistenza di questa lista non è una garanzia adeguata alla posta in gioco: innanzitutto, molti kanak non riescono a registrarsi; inoltre, permettendo l’iscrizione a quanti risiedevano nel 1988, gli indipendentisti ottennero il “congelamento” del corpo elettorale ma al prezzo di integrare una buona parte dei non-kanak trasferitisi nell’arcipelago nel corso del Novecento.
Difatti, nel primo referendum, organizzato nel 2018, il “No” alla piena sovranità ha vinto col 56,7%, percentuale che si sarebbe però abbassata nel 2020 al 53,26%. Il lento scivolamento dell’elettorato iscritto alla LESP verso il “Sì” ha non poco inquietato l’autorità, in quanto segno della convergenza tra i “lealisti” più progressisti e gli indipendentisti aperti ad una soluzione di mezzo: ad esempio, proponendo allo Stato un’indipendenza-associazione e varie forme di partenariato, in grado di rendere meno violento il distacco per i partigiani della Nuova Caledonia francese.
A seguito della formazione del primo governo a maggioranza indipendentista guidato da Louis Mapou, esponente dell’UNI (Union Nationale pour l’Indepéndence) e membro del FLNKS, Macron ha scelto di organizzare il terzo ed ultimo referendum previsto il dicembre 2021: ovvero, solo un anno dopo il precedente e in piena emergenza COVID. La decisione di Macron e del suo ministro dell’Oltre-mare dell’epoca, Sébastién Lecornu, non ha tenuto conto della richiesta degli indipendentisti di posporre la data e rispettare la tragicità del momento: quello dei funerali per i morti causati dall’epidemia di COVID in una società, come quella kanak, in cui il rituale prevede un grande dispendio di tempo ed energia, impedendo così agli indipendentisti di organizzare una campagna elettorale e tagliandoli fuori dalla competizione referendaria.
Davanti al diniego delle autorità, il FLNKS, che riunisce una pluralità di partiti politici, comitati, sindacati e associazioni, ma anche altri partiti minori che ruotano attorno al mondo indipendentista, hanno chiamato al boicottaggio elettorale. L’appello ha avuto un grande successo, facendo crollare la partecipazione rispetto ai referendum precedenti. Se nel 2018 aveva partecipato l’81,01% della popolazione iscritta e nel 2020 l’85,69%, nel 2021 si è espresso solo il 43,87%, per un 96,50% di “No” all’indipendenza. Nonostante il valore fittizio della vittoria degli anti-indipendentisti, Macron ha accolto il risultato come valido, distruggendo qualsiasi possibilità di mediazione.
Un progetto di ricolonizzazione brutale
L’idea di forzare la mano con la proposta di un “scongelamento” del corpo elettorale, il dégel, si inserisce in questo contesto. Presentato dal ministro dell’Interno Gérald Darmanin il 29 gennaio 2024, il progetto di legge, che apre il diritto di voto sia alle elezioni provinciali che a quella del Congresso con solo dieci anni di residenza sul territorio, è stato approvato martedì 2 aprile dal Senato, che l’ha adottata come legge costituzionale con 233 voti favorevoli e 99 contrari.
Il progetto di riforma costituzionale è stato infine adottato anche dall’Assemblea nazionale con voti favorevoli e contrari (in gran parte provenienti dalla NUPES guidata da Jean-Luc Mélénchon), sostenuto in questa sede dal deputato eletto per la Nuova Caledonia, Nicolas Metzdorf, e strenuamente voluto dal gruppo Les Loyalistes diretto da Sonia Backés, di cui il suo partito, Le Ressemblement, è il principale motore.
La posizione dello Stato, presuntamente garante degli accordi, era in realtà oramai compromessa da tempo, soprattutto dopo la decisione di Macron di fare proprio di Backés, principale oppositrice degli indipendentisti, segretaria di Stato alla Cittadinanza sotto il governo Borne, tra il luglio 2022 e l’ottobre 2023.
La collera degli indipendentisti si è espressa con una mobilitazione di massa. Nonostante le resistenze di una parte del FLNKS verso la creazione di una “cellula di coordinamento delle azioni sul campo” (la CCAT), rete nata a fine 2023 e oggi alla testa dei blocchi stradali e delle operazioni di sabotaggio, la posizione è chiara: il ritiro della legge, che implicherebbe l’iscrizione di più di 20.000 aventi diritto, destabilizzando definitivamente il processo di decolonizzazione in corso da decenni.
Le tensioni più forti si concentrano ancora in questo momento a Nouméa e nei suoi sobborghi, abitati da una popolazione mista di Europei e Oceaniani e centro dell’economia locale. Tutto il territorio, ma in particolare l’agglomerazione urbana, sono stati il teatro per più di una settimana dell’incendio e della distruzioni di uffici, servizi, strutture commerciali, uno scenario definito “insurrezionale” che ha cambiato il volto della penisola industriale di Ducos.
Ad oggi si contano sette morti, solo tra quelli certificati. Quattro di loro sono kanak, di cui uno studente di diciannove dell’isola di Maré e una minorenne di soli diciassette, originaria del comune di Canala. A loro si sommano un discendente di coloni europei, ucciso ad un posto di blocco dopo aver tirato alcuni colpi di armi da fuoco in direzione degli indipendentisti, e due gendarmi, uno dei quali colpito da un colpo d’arma da fuoco proveniente da un collega.
Gli autori degli assassinii dei ragazzi kanak sono invece dei civili caldoches, dal nome con cui vengono definiti i discendenti dei coloni europei residenti nelle zone rurali dell’isola principale del paese, e riuniti in milizie armate di tutto punto, grazie alla legge territoriale voluta dai partiti della destra locale sulla liberalizzazione della vendita d’armi, oggi in mano a milizie che, stando a fonti locali, si concentrano tra Nouméa e il comune suburbano di Paita, provando a forzare i blocchi e diffondendo il panico.
I due decreti passati in linea con lo stato di emergenza prevedono, tra le tante disposizioni, di procedere a perquisizione di qualsiasi genere e di prendere tutte le misure a disposizione per bloccare quei servizi e canali di comunicazione che provocherebbero atti di terrorismo (termine quanto mai fluido di questi tempi) o ne facessero apologia. L’accesso a TikTok, la celebre app al centro delle polemiche dopo la firma da parte di Joe Biden di una legge che ne vieterebbe l’utilizzo negli Stati Uniti, è stato bloccato in tutto l’arcipelago. Questo avviene nonostante le difficoltà del governo a rispondere alle obiezioni espresse dalle due avvocatesse che stanno portando avanti il ricorso di alcune associazioni francesi e neocaledoni contro la misura, giudicata un pericoloso precedente.
Dapprima, Darmanin ha annunciato il 19 maggio su X l’invio di 600 nuovi gendarmi (per un totale che ormai ha raggiunto le 3000 unità), tra cui un centinaio di GIGN (le unità speciali d’assalto) per riprendere (almeno) il controllo della strada di 60 km che collega Noumèa dall’aeroporto di La Tontouta al fine di ripristinare “l’ordine repubblicano”.
Davanti alle resistenze dei comitati locali e alla ricostruzione sistematica delle barricate e dei blocchi distrutti dalle forze dell’ordine, Macron ha infine raggiunto il paese mercoledì scorso per incontrare i dirigenti dei diversi gruppi politici (il FLNKS e il cartello di partiti anti-indipendentisti dei “Loyalistes”), a cui era presente anche Cristophe Tein, responsabile della CCAT ora a misure domiciliari. Il presidente francese ha aperto in un’intervista a Le Parisien alla possibilità di sottoporre il progetto di legge a approvazione referendaria. Tein ha invece dichiarato poco dopo l’incontro di essere d’accordo ad allentare la morsa sulle principali infrastrutture stradali senza però smobilitare i militanti.
I comitati indipendentisti incaricati di bloccare la circolazione provano intanto a ricucire il legame tra le diverse comunità, attraverso la distribuzione degli alimenti, sempre più difficili da trovare a causa della distruzione di numerosissimi poli commerciali da parte di giovani kanak sempre più decisi a non cedere nonostante la militarizzazione del territorio – un aspetto sul quale per il momento Macron, che ha pronunciato già il 23 maggio una dichiarazione di politica generale (riguardante in particolar modo le misure rivolte alle imprese colpite), non sembra intenzionato a retrocedere, con l’invio di unità supplementari.
La distruzione politica del progetto di “vivere insieme”, retoricamente riaffermato dalle politiche territoriale nate nel segno dell’accordo di Nouméa, sembra programmatica e lampante, dopo anni di virata a destra del gruppo di Sonia Backés e il crollo elettorale di quei partiti interessati a fare da mediatori tra i due poli. Il “destino comune” riaffermato nel testo del 1998 sembra vacillare come mai prima d’ora dall’insurrezione del 1984.