Oltre i Femminismi Bianchi: L'Intersezionalità nei Femminismi Palestinesi come Via per la Resistenza e la Liberazione

Oltre i Femminismi Bianchi: L'Intersezionalità nei Femminismi Palestinesi come Via per la Resistenza e la Liberazione

Di Camilla Donzelli

Per lungo tempo nel mondo occidentale l’approccio femminista bianco ha monopolizzato piazze e dibattiti. Questo tipo di femminismo incanalava tutti i propri sforzi verso l’ottenimento di libertà e diritti delle donne, intese però come una categoria monolitica: donne bianche, istruite, di estrazione sociale alta, borghese o medioborghese, benestanti. Inevitabilmente, il fascio di luce puntato sulle rivendicazioni di donne appartenenti ad un’unica classe sociale creava punti ciechi che inghiottivano nel buio esistenze altre, segnate da esperienze di discriminazione molto diverse e più stratificate.

Basti pensare al caso del movimento suffragista all’inizio del ‘900: in molti casi, l’impegno di una militante in comitati e proteste era reso possibile dal lavoro di cura sottopagato di una donna nera, povera, proletaria, totalmente invisibile e silenziata dalla narrazione bianca prevalente all’interno del movimento.

Con l’evoluzione dei femminismi occidentali è maturata la consapevolezza che la categoria “donna”, di per sé, non descrive affatto l’esperienza di tutte le donne. Da qui la nascita dell’approccio intersezionale, concetto coniato fra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 negli Stati Uniti dalla giurista e attivista femminista Kimberlé Crenshaw, nel tentativo di descrivere il particolare tipo di oppressione esperito dalle lavoratrici afro-americane.

L’intersezionalità tiene in considerazione i molteplici aspetti che compongono le nostre identità e i modi in cui questi si sovrappongono creando particolari situazioni di svantaggio o privilegio in un determinato contesto sociale. Oltre al genere, questi aspetti possono essere per esempio il colore della pelle, l’origine etnica, l’appartenenza ad un gruppo religioso, la provenienza territoriale, lo status socio-economico, l’orientamento sessuale. Tutti questi fattori interagiscono con i sistemi di potere in essere, come il patriarcato, il capitalismo o il neocolonialismo, creando meccanismi di oppressione che determinano un diverso accesso alle risorse, ai diritti, alle opportunità e all’autodeterminazione.

In tal senso, l’approccio intersezionale è una sorta di nuova lente che, smantellando le classiche categorie propinate dal femminismo bianco, permette di cogliere e osservare più da vicino la natura sistemica delle ingiustizie sociali. Per questo motivo il concetto di intersezionalità è stato ampiamente adottato dai più recenti femminismi sviluppatisi nel mondo occidentale, rendendoli più inclusivi, dialoganti e consapevoli rispetto alle innumerevoli sfaccettature dei dispositivi di oppressione.

Messa così, le categorie di analisi intersezionale sembrerebbero una conquista dei movimenti femministi nati e cresciuti in seno al mondo occidentale. Eppure, guardando ad esperienze di mobilitazione non occidentali e non bianche, si scopre che l’intersezionalità è sin dagli albori la colonna portante di uno dei movimenti di stampo femminile più attivi, politicamente interessanti, eppure troppo poco discussi, dell’ultimo secolo: quello palestinese.

La lotta delle donne palestinesi ha una lunga storia, e per raccontarla occorre innanzitutto fare una premessa terminologica. Come spiega la giornalista e ricercatrice Cecilia Dalla Negra, il concetto di femminismo ha un’accezione non neutrale, in quanto richiama pratiche e processi tipicamente occidentali. Per questo, molte donne e movimenti che agiscono nel contesto palestinese - e più in generale, in quello arabo - rifiutano categoricamente questa definizione, rivendicando una propria indipendenza filosofica e culturale. In tale cornice, occorre quindi prestare attenzione più alle pratiche nella loro specificità che alla mera terminologia utilizzata.

L’inizio di un attivismo femminile palestinese marcatamente politico coincide con la nascita del movimento sionista. 

Il sionismo emerge in Europa come ideologia politica con dichiarati intenti colonialisti, e individua nella Palestina storica il luogo ideale per la costituzione di una sede nazionale ebraica. Nel 1893 i primi sionisti cominciano a emigrare dall’Europa verso varie destinazioni palestinesi; una di queste è Afula, un villaggio nelle vicinanze di Nazareth, dove costruiscono un insediamento. La risposta della popolazione locale è immediata, e segna la scesa in campo delle donne nella protesta contro quella che successivamente diventerà una vera e propria occupazione.

I primi due decenni del ‘900 vedono le donne palestinesi muoversi in un più ampio contesto di cambiamento culturale che sta attraversando tutti i paesi arabi, la cosiddetta Nahda. In risposta all’oppressione coloniale - dapprima ottomana e, dopo la Prima Guerra Mondiale, britannica - in questo periodo in Palestina comincia a svilupparsi una coscienza nazionale. Emergono partiti politici, unioni dei lavoratori, movimenti civili, e in tale scenario le donne ricoprono un ruolo centrale: con la formazione di associazioni e comitati caritatevoli, svolgono un enorme lavoro di promozione dell’educazione sia nelle aree urbane che in quelle rurali.

La società palestinese è a questo punto un’entità in movimento. Seppur caratterizzata da contraddizioni interne e discriminazioni di genere come un qualsiasi altro Paese, procede verso il cambiamento grazie a spinte interne, smentendo la narrazione imperialista occidentale di un mondo arabo-islamico passivo, che necessita di essere salvato. Ma non solo: a trainare il cambiamento ci sono le donne, impegnate in una lotta che interseca la questione di genere all’identità nazionale.

E difatti, le donne prendono parte alla Grande Rivolta araba del 1936-1939, che si scatena in risposta all’avanzare dell’occupazione sionista appoggiata dagli inglesi. La partecipazione femminile è senza precedenti: le donne palestinesi oppongono una resistenza attiva e proattiva, partecipando ai combattimenti, impegnandosi nel lavoro di propaganda, boicottando i prodotti occidentali, organizzando scioperi e sostenendo materialmente famiglie, feriti e prigionieri.

Nel 1947 le Nazioni Unite approvano una risoluzione che prevede la partizione della Palestina storica in due stati, uno ebreo e uno arabo. Il piano viene fortemente criticato da parte palestinese, e bollato come iniquo. L’anno successivo la situazione degenera, con attacchi sempre più violenti sferrati a danno dei palestinesi da parte delle milizie sioniste. Gli inglesi lasciano la Palestina, lo Stato di Israele si dichiara indipendente e interi villaggi palestinesi vengono razziati e rasi al suolo per essere rimpiazzati da nuovi insediamenti israeliani. Oltre la metà della popolazione locale al tempo residente in Palestina - circa 800.000 persone - è costretta a fuggire dalla violenza coloniale e genocida dei sionisti: i palestinesi diventano sfollati nella propria terra. Il 1948 rimane impresso nella memoria collettiva palestinese come l’anno della catastrofe, Nakba in arabo.

Negli anni successivi la morsa soffocante di Israele impedisce alle donne di formare organizzazioni politiche indipendenti. A dispetto di ciò, la partecipazione femminile rimane una componente fondamentale in movimenti e organizzazioni clandestine come Al Ard, “La Terra”, il cui scopo è la creazione di una società multiculturale ed egualitaria ispirata agli ideali del socialismo arabo.

Nel 1964 nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e in seno ad essa, nel 1965, si forma l’Unione Generale delle Donne Palestinesi. Tale organizzazione si impone nella cornice di un movimento nazionalista di stampo maschile, offrendo un punto di vista intersezionale che lega saldamente la causa nazionale palestinese alla parità di genere.

Il 1967 è l’anno della Naksa, “la ricaduta”. Al termine della guerra dei sei giorni Israele occupa militarmente tutti i territori della Palestina storica, acquisendo Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Questo secondo evento così tragico spinge nuovamente le donne all’azione politica. La risposta violenta dell’occupante a manifestazioni e sit-in non fa altro che aumentare la rabbia e la coscienza politica delle donne, che cominciano a strutturarsi in Comitati.

I Comitati prolifereranno nel corso di tutti gli anni ‘70, per arrivare a ricoprire un ruolo fondamentale nel corso della Prima Intifada. L’attività dei Comitati si concentra su due fronti: da una parte azioni dirette e manifestazioni nella sfera pubblica, dall’altra una riorganizzazione dell’economia domestica e della vita comunitaria in un’ottica conflittuale e di boicottaggio dell’occupante. Attraverso il protagonismo dei Comitati e il loro ampio spettro d’azione, le donne portano rivendicazioni specifiche dentro la narrazione resistente di un intero popolo.

Emergono infatti nel discorso pubblico le disparità di genere e viene data voce alla necessità di rivedere le priorità tutte maschili dell’agenda di lotta, nella convinzione che la partecipazione femminile sia un passaggio cardine nel rafforzamento della resistenza palestinese e nel successivo raggiungimento dell’obiettivo finale: la creazione di uno Stato indipendente basato sui principi di uguaglianza e inclusività.

Per dirla con le parole della poetessa palestinese Fadwa Tuqan, “Come posso mettere la mia penna al servizio della liberazione nazionale, se non sono libera io stessa?“.

A partire dalla Prima Intifada e col costante acuirsi della violenza sistemica quotidiana perpetrata da Israele, emerge un ulteriore aspetto caratteristico della coscienza politica femminile palestinese. È un aspetto che ricade nella sfera privata, simbolica. Oltre alla devastazione materiale, la principale strategia di distruzione utilizzata dal sistema di occupazione è quella di de-umanizzare il popolo palestinese, frammentandone identità e relazioni e annientandolo così dall’interno. In tal senso il lavoro di cura delle donne assume una valenza profondamente politica: lenire la sofferenza causata da violenza e oppressione, ricucire e ricostruire la memoria individuale e collettiva per tramandarla alle generazioni future. Le donne diventano così custodi dell’identità nazionale, e il lavoro silenziosamente svolto fra le mura domestiche si fa atto politico sovversivo e resistente.

La lotta su due fronti in cui le donne palestinesi sono impegnate da oltre un secolo svela la natura intersezionale dell’oppressione, mettendo a fuoco il legame esistente fra patriarcato e sistemi coloniali. Come evidenziato da un rapporto pubblicato nel 2018 da diverse associazioni femminili palestinesi, “la natura militarizzata dell’occupazione è intrinsecamente maschile; l’occupazione è stata istituita da uomini, è guidata da uomini e continua a essere imposta in gran parte da uomini”. 

Diverse analisi di studiose palestinesi hanno difatti messo in evidenza come il sistema coloniale israeliano sfrutti l’assetto patriarcale della società palestinese, strumentalizzandolo e rafforzandolo.

Il rapporto sopracitato continua spiegando che “l’occupazione si basa su identità e ruoli di genere precostituiti, perpetuando a sua volta le disuguaglianze di genere derivanti da norme patriarcali.” 

In particolare, la violenza dell’occupazione pesa sproporzionatamente sulle donne: quelle che non possono ricongiungersi alle loro famiglie e rientrare nelle proprie case; quelle che sono sono costrette a stare a guardare mentre i loro mariti e figli vengono arrestati, attaccati e uccisi; quelle che subiscono torture specifiche di genere nelle carceri israeliane; quelle donne rifugiate che devono sopportare la propria condizione marginalizzata in una società già di per sé patriarcale; quelle attiviste per i diritti umani che sono specificamente bersagliate da Israele e quelle donne, specialmente a Gaza, a cui i sono negati i più basilari diritti alla salute”.

A tutto questo si va ad aggiungere un ulteriore elemento di complessità. Nel corso del tempo le donne palestinesi hanno dovuto confrontarsi con l’approccio di molti movimenti femministi occidentali, che nell’analizzare l’evoluzione della lotta femminile in Palestina hanno conservato uno sguardo paternalista e neocoloniale.

Lo spiega bene Manal Tamimi, attivista che dal 2009 è impegnata nella resistenza contro l’espansione degli insediamenti illegali israeliani nel suo villaggio in Cisgiordania, Nabi Saleh. In un’intervista rilasciata all’organizzazione catalana Ciutats Defensores dels Drets Humans, Tamimi si scaglia contro ”l’idea sbagliata” tutta occidentale che dipinge le donne musulmane come completamente succubi e silenziate, “soprattutto se indossano l’hijab“. Al contrario, spiegando come si svolgono le proteste settimanali nel suo villaggio, specifica che “partecipiamo al processo decisionale per le proteste, i temi e e le attività all’interno e all’esterno del villaggio”.

Manal Tamimi ha un master in diritto internazionale conseguito presso l’Università Al-Quds e fa parte del Comitato di Coordinamento per la Lotta Popolare, un’organizzazione attiva in Cisgiordania. Ha viaggiato in svariati Paesi, dagli Stati Uniti all’Europa, facendosi voce della violazione dei diritti del popolo palestinese. È la controprova vivente dell’agency femminile palestinese, che si muove con proprie risorse, determinazione e cognizione di causa verso un obiettivo finale molto chiaro.

Sempre Tamimi porta il proprio punto di vista intersezionale, raccontando nella stessa intervista cosa significhi essere donna, palestinese, attivista e madre sotto occupazione:

“Resisto perché non voglio morire in silenzio, non voglio morire prima di morire. L’occupazione sta cercando di ucciderci mentre siamo vivi, di uccidere il nostro spirito. Ho imparato che il mondo non ci ascolterà se restiamo in silenzio, nessuno lotterà per i miei diritti e mi darà indietro ciò che avevo se non combatto e non resisto.

Per una madre, vivere sotto occupazione è molto duro perché non è possibile garantire la sicurezza dei propri figli. Come madre, e non come attivista, sono sempre molto preoccupata per i miei figli. Penso sempre che potrebbero non tornare o respirare gas lacrimogeni. Questa paura e preoccupazione ci paralizzano come madri, ma la cosa più importante è che non ci controllano.

La madre è il pilastro più importante della famiglia, e se lei si sente debole la famiglia stessa si indebolisce. La donna è il pilastro essenziale e più forte. Abbiamo momenti di debolezza, ma sono solo momenti. Essere una donna e un’attivista significa essere osservate tutto il tempo, ma crediamo in quello che facciamo e un giorno moriremo, quindi perché dovremmo morire in silenzio?

Siamo già sotto i riflettori per il solo fatto di essere palestinesi, pur non avendo commesso nessun crimine, quindi preferisco morire resistendo invece che a letto aspettando che qualcosa cambi”.

Nel punto di convergenza di tutte le istanze identitarie femminili palestinesi si colloca il movimento Tal’at, nato nel settembre 2019 in risposta al femminicidio di Israa Ghareb, giovane donna uccisa dai familiari per essersi rifiutata di sposare un cugino. Nel dialetto arabo palestinese l’espressione Tal’at significa “quelle che escono, che scendono in strada”: tramite un’azione politica pubblica, trasversale, che abbraccia sia i territori occupati che la diaspora palestinese, il movimento combatte gli abusi del patriarcato, del capitalismo e del colonialismo.

Come spiega Soheir Asaad - attivista femminista, fra le organizzatrici del movimento - in un’intervista rilasciata al Manifesto, Tal’at vuole “ridefinire il concetto di liberazione nazionale, prendendo di mira l’élite politica, i partiti, le organizzazioni: non ci può essere liberazione nazionale senza la liberazione delle donne”. In questo senso, il movimento si inserisce senza dubbio nella pratica e nella produzione teorica della genealogia femminile palestinese dell’ultimo secolo.

Tuttavia, vengono introdotti degli elementi di novità. Per prima cosa l’assenza di un coordinamento strutturato, scelta precisa e deliberata per non porre limiti all’inclusività e all’agenda di Tal’at. Ne consegue la natura dichiaratamente radicale e intersezionale del movimento, che fa appello a tutte le soggettività marginalizzate - in primis la comunità LGBTQI+ palestinese. Come spiegano Hala Marshood e Riya Alsanah su Mondoweiss, l’intento è quello di portare avanti una lotta dapprima interna alla società palestinese, in modo da ricomporne la trama dilaniata dall’occupazione; soltanto dopo, una volta guarite le ferite, sarà possibile compattarsi attorno ad un progetto di liberazione nazionale duraturo che incorpori giustizia, equità e uguaglianza per tutte e tutti.

Come sottolineano Marshood e Alsanah, “sfidando gli stereotipi razzisti e orientalisti, le donne del Medio Oriente e del Nord Africa sono in prima linea nella lotta per la costruzione di una società più giusta ed equa”. 

E allora, forse, sarebbe il caso di partire proprio dalla decolonizzazione dello sguardo occidentale, riconoscendo la validità delle esperienze di lotta delle altre e aprendo orecchie e mente alle lezioni che hanno da impartire