Nuovo Patto Migrazioni e Asilo, Stesso Approccio Securitario
di Camilla Donzelli
Lo scorso 20 dicembre, a oltre sette anni di distanza dall’avvio dei negoziati in sede UE, il Consiglio e il Parlamento hanno raggiunto un accordo sulla riforma del sistema europeo di gestione dei flussi migratori.
Mercoledì 10 aprile il testo del Patto migrazione e asilo ha ricevuto l’approvazione definitiva dal Parlamento Europeo.
Nelle parole della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e della Presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, il nuovo Patto sarebbe un punto di svolta “storico”. Eppure, basta scorrere l’informativa pubblicata sul sito web del Consiglio europeo per farsi un’idea dell’approccio adottato.
Già nelle primissime righe di presentazione viene utilizzato un linguaggio che fa eco ad un clima di guerriglia, in cui si parla di “lotta” e “resistenza” ad una “pressione migratoria” che “colpisce” gli Stati membri. E difatti, andando ad analizzare i contenuti del Patto, appare evidente come in realtà il testo si collochi in perfetta continuità con l’approccio securitario che ormai da anni l’Unione Europea sta adottando nella gestione dei flussi migratori provenienti da Paesi extra UE. Quello stesso approccio che è valso all’Unione la nomea di Fortezza Europa.
Il nuovo Patto si compone di cinque regolamenti chiave. Il primo riguarda la gestione dell’asilo e della migrazione; il secondo disciplina le cosiddette “crisi” migratorie; il terzo riforma la banca dati Eurodac; il quarto introduce nuove procedure di screening; l’ultimo si occupa della procedura comune di asilo.
“Due dei cinque regolamenti sono completamente nuovi, il regolamento screening e il cosiddetto regolamento crisi e forza maggiore”, spiega Eleonora Celoria, avvocata dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione, che si sta occupando di studiare il nuovo Patto. “Ma anche nel loro essere nuovi, di fatto istituzionalizzano, danno un cappello giuridico a prassi che già esistevano all’interno degli hotspot [le strutture di primissima accoglienza allestite per lo più lungo le frontiere marittime, in cui vengono espletate tutte le procedure di identificazione, ndr]. Quindi, secondo me nessuno dei regolamenti è veramente dirompente in termini di novità.”
Il regolamento sullo screening disciplina gli accertamenti che vengono fatti all’ingresso, tendenzialmente a seguito di un’operazione di soccorso in mare o se la persona viene etichettata come irregolare. Gli accertamenti condotti sono di tre tipi: identità, salute e sicurezza. Quest’ultimo, in particolare, serve per verificare se la persona rappresenta un pericolo in termini di ordine pubblico e sicurezza e fa affidamento sulla collaborazione di agenzie che si occupano di diritto penale, come Europol.
“È interessante sottolineare che c’è un articolo del regolamento che dice che questi accertamenti possono essere effettuati anche quando la persona si trova già sul territorio e viene fermata, ad esempio, a valichi di frontiera”, continua Celoria. “È un modo ulteriore di controllare, e molte associazioni hanno fatto presente che questo darà luogo ad un’immensa attività di racial profiling, perché di fatto si autorizzano le forze di polizia a fermare presunte persone migranti sul territorio nazionale per fare questi accertamenti.”
“Inoltre, la durata temporale massima stabilita per l’espletamento di queste procedure viene estesa a 5 giorni in circostanze normali e a 10 in caso di cosiddetta crisi”, spiega l’avvocata. “Questo è grave, sia alle frontiere sia perché oggi la polizia può trattenere chiunque – cittadini stranieri presenti sul territorio o chiunque altro – per accertamenti fino ad un massimo di 24 ore. Adesso, in base al regolamento, si crea un discrimine che consente la detenzione fisica di persone migranti per accertamenti fino a 5 o 10 giorni.”
L’altro nuovo regolamento è quello riguardante le circostanze di crisi e forza maggiore. “Sostanzialmente prevede tutta una serie di deroghe alla procedura ordinaria d’asilo quando ci si trova in questi contesti di crisi o forza maggiore”, spiega Celoria, “contesti particolari che non sono sempre ben definiti nel regolamento, che potranno quindi essere interpretati in maniera molto differenziata, lasciando ampia libertà di manovra ai singoli Stati. Fondamentalmente sono delle deroghe alle regole in materia di esame della domanda, tempistiche, possibilità di applicare le procedure di frontiera, procedure legate all’accoglienza.”
Il regolamento che riforma le procedure di asilo contiene delle criticità particolarmente preoccupanti. Viene infatti normalizzato l’utilizzo di procedure accelerate, che impediranno a moltissime persone di ricevere una valutazione equa e ponderata della richiesta di asilo presentata. “Il senso è che quando io faccio domanda di asilo non posso essere allontanata perché c’è un rischio di violazione della Convenzione di Ginevra [il trattato internazionale che stabilisce i principi fondamentali del diritto di asilo, ndr], e la mia pratica deve essere esaminata individualmente, ascoltando la mia storia”, spiega ancora Celoria. “Con questo regolamento, in moltissimi casi si possono applicare procedure cosiddette accelerate, che derogano alla procedura generale. Si prevede, per esempio, che dopo la prima parte dell’esame, quindi l’esame davanti alla prima autorità, io non possa più restare sul territorio; si prevede un esame accelerato, il che implica meno garanzie, sia in termini di accesso all’assistenza legale, sia in termini concreti temporali.”
In caso di rigetto della domanda di asilo, le procedure accelerate abbreviano notevolmente i termini per il ricorso in Tribunale, cancellando al contempo l’effetto sospensivo. A livello pratico, ciò si traduce nella possibilità di espulsione verso il Paese di provenienza ancor prima che la procedura di ricorso abbia inizio, con tutte le difficoltà annesse nel gestire i rapporti con avvocati e giudici a migliaia e migliaia di chilometri di distanza.
“Tanto più è accelerata la procedura, tanto meno io avrò modo di esporre in maniera adeguata le mie ragioni e di ottenere un accoglimento. Ma anche le stesse autorità predisposte all’esame della domanda, sottoposte ad una pressione tale per cui dovranno prendere una decisione nel giro di uno o due giorni, non saranno in grado di esaminarla compiutamente, facendo ricerca e prendendo in considerazione il singolo caso. È una standardizzazione delle procedure verso il basso”, sottolinea Celoria.
A ciò si aggiunge la finzione giuridica del non ingresso, dispositivo che ha sollevato moltissime critiche da parte delle organizzazioni che si occupano di tutela dei diritti delle persone in movimento. Tramite questo meccanismo, infatti, sarà possibile trattare le persone come se non avessero mai fatto accesso al territorio UE; questo consentirà di aggirare le già scarse tutele in materia di respingimenti, che potranno essere quindi facilmente e legittimamente operati lungo le frontiere.
“Ci sono poi tutta una serie di ipotesi in cui le procedure accelerate si collegano alla provenienza da determinati Paesi”, continua a spiegare l’avvocata. “Paesi di origine sicuri, per cui c’è una presunzione di sicurezza; oppure quando le persone vengono da un Paese il cui tasso di riconoscimento della protezione internazionale è inferiore al 20%. E quindi di nuovo, la domanda non viene più esaminata basandosi su circostanze personali, ma basandosi sulla nazionalità. In poche parole, si svuota il senso della domanda di asilo.”
L’ultima ipotesi che prevede l’applicazione delle procedure accelerate è quella del Paese terzo sicuro. Quando il richiedente è transitato per un Paese che si ritiene garantisca degli standard minimi di protezione, la domanda viene automaticamente dichiarata inammissibile e il richiedente viene rimpatriato verso quel Paese – meccanismo che conosciamo bene in virtù all’accordo fra Grecia e Turchia.
Anche l’apposito regolamento che riforma il sistema Dublino ha un orientamento molto discutibile. Il trattato di Dublino è un documento stilato per la prima volta negli anni ‘90 che stabilisce i criteri di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale. La regola cardine generale prevede che, salvo rare eccezioni, sia il primo Paese d’ingresso a prendere in carico la domanda presentata. Per evidenti ragioni geografiche, tale meccanismo ha storicamente impattato i Paesi frontalieri – Italia, Grecia e Spagna –, secondo una logica implicita di “protezione e tutela” degli Stati centroeuropei.
Il nuovo Patto migrazione e asilo viene presentato come una vittoria per i Paesi di confine, in quanto introdurrebbe dei dispositivi di solidarietà finalizzati ad alleviare il carico di lavoro a cui tali Stati – scarsamente organizzati e con un sistema di welfare ridotto all’osso – sono sottoposti. “Si tratta di una solidarietà in termini meramente economici, che non vanno nemmeno a supportare realmente lo Stato interessato”, spiega l’avvocata Celoria. “Ci sono infatti tre modalità per esercitare questa solidarietà: la relocation, quindi la ricollocazione vera e propria dei richiedenti; il pagamento di un contributo a supporto dello Stato di accoglienza; un contributo finanziario in un fondo destinato alla gestione delle frontiere tramite accordi con Paesi terzi. Penso che la direzione che verrà presa sia quest’ultima, l’esternalizzazione delle frontiere”. Alcuni esempi di esternalizzazione delle frontiere sono gli accordi fra Italia e Libia, e la già menzionata partnership fra Grecia e Turchia. Tali accordi hanno prodotto nel corso del tempo enormi violazioni dei diritti umani, ampiamente documentate da stampa e organizzazioni internazionali.
“Per ovviare a questo problema del sovraccarico, il Patto prevede un tetto massimo di 30.000 richiedenti che possono essere sottoposti alle procedure di frontiera annualmente in tutta l’Unione Europea”, continua Celoria. “Si tratta di una scappatoia, ma di una scappatoia che ancora una volta va ad incidere sui diritti delle persone in ingresso. In tal modo, infatti, l’essere sottoposti alle procedure di frontiera, a parità di circostanze personali, dipende dal tempismo. Si crea una disparità di trattamento del tutto arbitraria: chi arriva prima del raggiungimento del tetto passa per le procedure accelerate, chi arriva dopo no. Il diritto d’asilo si svuota, non è più effettivo.”
Affinché il sistema Dublino funzioni, è necessaria un’infrastruttura di controllo per verificare i movimenti interni dei richiedenti asilo. Questa è la funziona di Eurodac, la banca dati che raccoglie impronte digitali e altre informazioni personali dei richiedenti asilo. Un semplice accesso a Eurodac consente a ciascun Paese di verificare dove il richiedente abbia fatto ingresso su suolo europeo per la prima volta, consentendo così eventuali “dublinamenti” verso lo Stato competente. È un meccanismo pensato per prevenire il cosiddetto asylum shopping, cioè la pratica di fare richiesta di asilo in più Paesi, secondo una logica per la quale la libertà di movimento e di pianificazione personale dei richiedenti asilo è ben poca cosa in rapporto a necessità ed interessi statali. Come spiega Celoria, il regolamento che riforma Eurodac prevede che “possano essere inserite in banca dati anche altre categorie di persone, come per esempio i cosiddetti migranti irregolari, cosa che prima non era possibile. Concettualmente, si crea una sovrapposizione in base alla quale si arriva a dire che i richiedenti asilo sono, di base, irregolari. C’è poi un’ulteriore estensione delle categorie alle quali possono essere prese le impronte, ad esempio i minori sotto i 14 anni.”
Oltre al Patto migrazione e asilo fin qui analizzato, esistono tuttavia altre riforme in corso che andranno ad incidere ancora una volta sulla libertà di movimento dei cittadini extra UE in cerca di rifugio o, semplicemente, colpevoli di essere alla ricerca di altre opportunità. “Contestualmente al Patto, a partire dal 2021 si stanno svolgendo i negoziati per la riforma del regolamento Schengen”, aggiunge Celoria. “Il principio su cui si basa gran parte del diritto dell’Unione Europea è rafforzare i controlli alle frontiere esterne per permettere la libera circolazione all’interno. Con la riforma del regolamento Schengen, pare si stia cercando di dare legittimità giuridica a quelli che fino ad adesso sono stati i pushback alle frontiere interne. Un esempio tipico sono i respingimenti fra Italia e Slovenia, o fra Francia e Italia. In sostanza, in uno degli articoli si dice che si possono trasferire i migranti intercettati in una zona di frontiera verso il Paese di provenienza. Allo stato attuale delle cose, questo è considerato come un respingimento illegittimo perché quando qualcuno entra in territorio nazionale bisognerebbe prima esaminare la domanda di asilo e poi eventualmente applicare il regolamento di Dublino. Con la riforma di Schengen, si legittimano invece questo tipo di respingimenti.”
L’avvocata conclude con una riflessione: “Le norme sono queste, e bisognerà capire quali limiti verranno messi alla loro applicazione. Un ruolo in senso positivo potrebbe essere giocato dai giudici nazionali e dalla Corte di Giustizia, che sarà probabilmente interpellata per l’applicazione delle norme più rigide. È paradossale che tutto questo pacchetto sia stato elaborato senza tenere presente che ci sono dei principi fondamentali che hanno rango costituzionale e che non possono essere sottoposti a deroghe.”
Paradossale è effettivamente il termine più appropriato per descrivere la prospettiva che ormai da anni genera i quadri normativi europei destinati a gestire i flussi migratori. Le ragioni di tale paradosso sono tuttavia molto profonde, più di quanto si possa pensare, e vanno ricercate nel concetto di Stato-nazione.
Come spiega la filosofa Donatella Di Cesare nel suo libro “Stranieri residenti”, lo Stato-nazione si basa su una finzione di omogeneità culturale e sociale, che per essere mantenuta richiede uno spazio geografico definito entro cui esercitare il monopolio della forza. In questo scenario, il migrante rappresenta un’anomalia. È percepito come portatore di una carica sovversiva, che incarna la deterritorializzazione, il passaggio, l’ibridazione dell’identità. In poche parole, il migrante mette in discussione l’origine mitica dello Stato-nazione, facendone vacillare i presupposti. Da qui la necessità di uno stretto controllo delle frontiere: creare una linea di discrimine è l’unico modo per preservare la legittimità – e in fin dei conti la stessa esistenza – dello Stato-nazione.
Il risultato, particolarmente evidente nei Paesi occidentali, è quello che viene definito paradosso democratico. La libertà e l’uguaglianza sono tutelate all’interno dei confini, ma non fuori. Quell’universalità dei diritti tanto sbandierata dall’Occidente si infrange contro i confini e si ritorce contro se stessa.
E allora, per dirla con le parole di De Cesare, “il migrante smaschera lo Stato”. Con la sua sola presenza ne interroga le fondamenta, svelandone finzioni e storture. Il migrante è quindi la cartina di tornasole, il punto da cui si dovrebbe partire per ripensare gli assetti democratici costruiti su criteri escludenti.