Il bravo ragazzo è stato arrestato.
Di Cristina Obber
Il bravo ragazzo è stato arrestato.
È stato ritrovato in Germania Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin.
Il bravo ragazzo che mai le avrebbe fatto del male e che invece l’ha aggredita e accoltellata e uccisa, e poi ha lasciato il suo corpo ai piedi di un dirupo così che a quella famiglia in angoscia non fosse nemmeno restituito.
Un uomo così buono da cercare informazioni, nei giorni precedenti, su kit di sopravvivenza, mentre l’avvocato di famiglia (facendo il suo mestiere ci mancherebbe) parla di improvvisazione mentre ci informa che Filippo amava Giulia, le faceva anche i biscotti.
Scopriamo così che fare i biscotti alla propria fidanzata o ex fidanzata sia garanzia di rettitudine.
La frase sui biscotti è finita nei titoli dei quotidiani, riportandoci un’immagine di cura e tenerezza, di un uomo che amava: amava da morire, evidentemente.
Il Quartetto Cetra cantava nel 1964, mio anno di nascita, “Ma le voleva bene, tanto ben, tanto ben, Bene da morir”.
Ho 59 anni, e ancora quel “Le voleva bene” sembra offuscare ogni consapevolezza e responsabilità.
Ci siamo chieste tutte in queste ore di telefonate e sguardi in apprensione perchè non si sia indagato subito ipotizzando un femminicidio, perchè si siano aspettati giorni e giorni per aprire il computer di lui, fosse solo per scongiurare la peggiore delle ipotesi che però non può finire in fondo alla lista in un paese con una donna uccisa ogni tre giorni.
Ci vuole davvero “una prova” della violenza (e il video è stato visionato con la massima urgenza?) per perquisire la casa di un sospetto femminicida. Non bastano degli indizi?
Perché gli elementi per pensare al peggio c’erano tutti: un’ ex, una lite, delle grida.
Non è un copione che conosciamo a memoria?
Ma noi no, a questo non ci vogliamo nemmeno pensare, mettiamo la testa sotto la sabbia e continuiamo a sperare che Babbo Natale esista e ci porti in dono un misunderstanding: lui l’ha riconquistata e sono fuggiti insieme.
Noi continuiamo a riempire i giornali -anche dopo il ritrovamento del corpo martoriato- di foto dei due fidanzati sorridenti e felici, perché la romanticizzazione del femminicidio, del troppo amore o dell’amore malato, come ci piace descriverlo, passa anche attraverso le immagini oltre che le parole.
Parole che profumano di biscotti appena sfornati, mentre lo stregone cattivo nel forno ci infilava Giulia.
E no, non c’è nulla di romantico in un femminicidio, e nemmeno in questo.
Nonostante leggiamo che “Quell’amore cattivo è finito per sempre, ora lo sappiamo. In un posto da innamorati, con il foliage da fotografare, il lago, le montagne, un posto sperduto e magico dove ieri è stato ritrovato il cadavere della ragazza che si chiamava Giulia Cecchettin”.
Non c’è nulla di romantico nel massacrare una donna.
Ci lasciano nei dirupi o a marcire in una fossa di liquami, ci sparano in testa, ci accoltellano nel sonno, ci seppelliscono sotto il fogliame di un bosco come fanno i giganti buoni. Fu descritto infatti come un gigante buono il femminicida che dopo una cena in trattoria strangolò “una sua amica” e la seppellì alla meglio nel bosco.
Nel bosco il problema non sono i lupi, ma gli uomini.
Eppure la stampa ci nausea con una narrazione che sembra fuori dal tempo ma ancora viola la dignità delle vittime, ci protende all’empatia con il carnefice e incide fortemente nell’immaginario collettivo.
Quando un uomo uccise la compagna a coltellate, in cucina, con la figlia di cinque anni che dormiva nella stanza accanto, più di un articolo ci informò di quanto l’uomo, dal carcere, chiedesse in continuazione notizie della piccola: “Ditemi come sta la mia cucciola”.
Un padre così protettivo da ucciderti la madre rimane sempre un buon padre in questo paese, poco importa se con tua madre sia un violento e un assassino.
Quando un uomo massacrò la moglie in modo così efferato che i carabinieri del luogo raccontarono di essere sconvolti dalla quantità di sangue ritrovato dentro e fuori dalla casa, sui muri e sulle finestre, l’avvocato difensore si premurò di far sapere alla stampa quanto il suo assistito fosse distrutto e disperato in carcere e la stampa le lacrime del disperato ce le mise anche nei titoli. Potrei riempire pagine.
Era una brava persona il mite ingegnere, il ragazzo studioso, il carabiniere depresso. È una brava persona ogni uomo che uccide i propri figli per infliggere la peggiore delle punizioni alla donna che lo ha lasciato.
Per le brave persone, i bravi ragazzi, sgorgano empatia, comprensione, pietas.
Mentre i corpi delle donne giacciono nei lettini metallici degli obitori e poi, come cantava Guccini, si perdono nel vento.
(I bravi ragazzi nemmeno stuprano, le troupe televisive si precipitano in periferia, non nei quartieri del centro, così come la narrazione empatica per un femminicida scompare quando ha la pelle scura, a meno che non si tratti di un lui ricco e famoso).
Nei miei incontri nelle scuole incontro bravi ragazzi che partecipano e si impegnano contro la violenza, incontro bravi ragazzi che rifiutano il termine femminicidio e diventando aggressivi si agitano e parlano di una violenza femminile di cui poi, ovviamente, non riescono a dare conto. Incontro bravi ragazzi che pensano che il tema non li riguardi in quanto bravi ragazzi, appunto.
Ma “bravi ragazzi” non significa niente.
E dunque di fronte alla scomparsa di una donna e di un bravo ragazzo, di una brava persona, è un dovere pensare al peggio e cominciare a ragionare e soprattutto agire di conseguenza, senza abbandonare la speranza di smentirci.
Di fronte a un femminicidio non possiamo non considerarlo come parte di un fenomeno, fenomeno mondiale di cui il 25 novembre è la giornata che ci richiama con maggior forza alla riflessione.
Gli uomini hanno un problema da affrontare e risolvere? Sì. Lo stanno facendo? No.
Nei casi di femminicidio ci troviamo di fronte a uomini fragili che non sanno gestire la frustrazione? Sì.
Ma l’insicurezza e la fragilità non ci debbono distogliere dal grande egoismo, dal cinismo e la prepotenza distillata a volte nel tempo e di cui il femminicidio non è che l’apice più cruento.
Non dobbiamo perché altrimenti viene compromessa la severità con la quale ci poniamo di fronte ai loro agiti e la severità con cui ne diamo testimonianza.
E questo vale per noi che assistiamo tra rabbia e impotenza agli eventi, più prevedibili di quanto si pensi, vale per chi indaga, vale per una magistratura che nelle sentenze riconosce o meno la dignità delle vittime, vale per chi fa comunicazione, perché la violenza sulle donne passa anche attraverso le parole con cui le raccontiamo, da vive e da morte.
E le parole con cui raccontiamo i loro carnefici.