Hebron: Racconti di Resistenza da una Città Divisa

Hebron: Racconti di Resistenza da una Città Divisa

Questo articolo è stato scritto fra il dicembre del 2019 e il gennaio del 2020 durante un viaggio in Palestina che ha toccato varie località della Cisgiordania occupata.

23 dicembre, il mio primo risveglio a Hebron.

Sono arrivata ieri sera, dopo una lunga e faticosa traversata sugli stracolmi mezzi pubblici palestinesi. Sono in visita insieme ad un gruppo internazionale di attivisti e per i prossimi dieci giorni verremo ospitati dall’organizzazione locale IPYL – International Palestinian Youth League.

Dopo aver fatto colazione con pane, hummus, labneh e za’atar ci stringiamo attorno ad Abdallah, la nostra guida, per ascoltare una breve introduzione sulla singolare storia della cittadina in cui siamo appena approdati, tutti ancora un po’ storditi dall’impatto con soldati, coloni e mitragliatrici.

Hebron è una popolosa città della Cisgiordania, situata ad una trentina di chilometri a sud di Al-Quds (il nome arabo di Gerusalemme). 

La particolarità di questo centro abitato è che non rientra in nessuna delle tre aree di influenza create a seguito degli Accordi di Oslo, ma ricade bensì sotto un protocollo speciale che suddivide il perimetro cittadino in due zone: 

H1, sotto il controllo dell’Autorità Palestinese; H2, sotto la diretta sorveglianza dell’esercito israeliano. 

Si tratta di una situazione del tutto unica nell’intera Cisgiordania, che si traduce in una netta e visibilissima separazione della città fra parte palestinese e parte israeliana, occupata da coloni e soldati.

Usciamo dalla sede di IPYL e ci lanciamo nell’affollata e chiassosa mattina delle strade arabe di Hebron. Siamo in venti, parliamo circa una decina di lingue diverse e siamo in preda all’entusiasmo, vigili e curiosi. Eppure, davanti all’ingresso della città vecchia, cala un silenzio tombale. Lo sguardo di tutti si posa con incredulità sulla gabbia d’acciaio che impedisce l’accesso a Shuhada Street, un tempo cuore pulsante di Hebron: è il nostro primo impatto con un checkpoint. Al di là delle sbarre si trova la colonia israeliana – incuneata esattamente nel centro storico della città, come un cuore trafitto. Le persone che vivono in questo insediamento illegale sono circa 600, protette da oltre 2000 soldati.

Accompagnando le parole con movimenti rapidi e nervosi delle mani, Abdallah ci racconta la storia di come gli abitanti di Hebron si siano visti strappare via la parte più importante della città. Nel 2001, come azione di rappresaglia a seguito della Seconda Intifada, una parte di Shuhada Street viene interdetta ai palestinesi. 

Comincia una lenta agonia per gli abitanti e i negozianti del centro storico – al tempo importantissima area commerciale della città, che culminerà prima nel 2015 con la conversione della zona in area militare e la totale interdizione dei palestinesi, poi nel 2017 con la costruzione di altri checkpoint che sigillano definitivamente l’intera città vecchia. 

Ad oggi, questa zona si è quasi del tutto spopolata a seguito delle pesanti restrizioni imposte e degli abusi perpetrati da esercito e coloni.

Le poche famiglie palestinesi rimaste a vivere nel centro storico possono accedere alle loro case solamente attraverso un’unica scalinata, interamente avvolta da una rete di metallo e presidiata dai soldati. Vivono completamente isolate dal resto della comunità araba, in quanto l’accesso alla zona H2 è consentito soltanto ai palestinesi residenti registrati. Le loro case sono facilmente riconoscibili: le finestre sono schermate da fitte inferriate di metallo, installate per proteggersi dagli attacchi quotidiani dei coloni.

Mentre ci apprestiamo ad attraversare il checkpoint Abdallah ci spiega che potrà accompagnarci solo per pochi metri, dopodiché dovremo proseguire da soli fino all’uscita del centro storico; in quanto palestinese, non gli è consentito camminare lungo Shuhada Street. 

Preparo il passaporto con un po’ di nervosismo, sentendomi in colpa per la facilità con la quale passerò i controlli. Mostro il documento al soldato, premendolo contro il vetro che separa la guardiola dal corridoio di passaggio. Lui fa scorrere velocemente il dito sulle generalità, poi si ferma sulla nazionalità. Mi guarda, fa un cenno con la testa e poi stende il braccio indicandomi l’uscita. Stranita, mi ritrovo dall’altra parte.

Il paesaggio è post-apocalittico. Le strade sono coperte di polvere e macerie, le case sono vuote e diroccate, le porte arrugginite di quelli che una volta erano i vivaci negozi del mercato sono saldate. I miei occhi vagano in questo nulla alla ricerca di una qualche, consolante forma di vita. Benché cerchi di camminare piano e silenziosamente, riesco a sentire il rimbombo dei miei passi nella polvere. Il mio sguardo incontra soltanto soldati e, di tanto in tanto, qualche colono israeliano con la kippah calcata in testa e un’arma a tracolla.

Alla fine di Shuahada Street ci aspetta Abdallah, che ci guida verso il nuovo mercato situato nella parte palestinese di Hebron. Vedendoci passare, le persone escono dai negozi e ci chiedono di fotografare, di filmare, di raccontare a tutti quello che stiamo vedendo. Sopra le nostre teste, delle reti proteggono i passanti dai coloni che vivono negli edifici con affaccio sul mercato, che spesso e volentieri si divertono a sputare o a lanciare spazzatura sui palestinesi.

Prima di rientrare alla sede dell’organizzazione per pranzare, saliamo sul tetto di un vecchio palazzo per vedere Hebron dall’alto. Lo skyline è di una bellezza struggente: una pennellata color terra bruciata impressa su uno sfondo azzurro, limpidissimo. Per un attimo il mio cuore si ammorbidisce, cullato dal cantilenare del muezzin. Abdallah si avvicina al parapetto e indica le grosse taniche che poggiano sui tetti di tutte le case circostanti. Ci spiega che i coloni israeliani hanno accesso diretto alla rete idrica – interamente controllata da Israele –, con una fornitura del servizio senza interruzioni; i palestinesi, invece, usufruiscono dell’acqua corrente per soli tre giorni al mese. Per questo ciascuna abitazione è attrezzata con questi grossi recipienti, che raccolgono acqua piovana indispensabile per sopperire allo scarsissimo approvvigionamento della rete idrica. Il problema, continua Abdallah, è che a Hebron i soldati israeliani si divertono a giocare a tiro al bersaglio mirando proprio le taniche.

Nel pomeriggio ci dirigiamo nuovamente verso il centro. La sensazione è che il tempo, qui, scorra in modo diverso. O che non scorra per niente, eternamente incastrato fra gli interstizi dei mattoni delle case disabitate, in rovina. Come se non trovasse pace, correndo in circolo mentre cerca di mordersi la coda come un cane rabbioso, sempre fermo nello stesso punto. Si ripete all’infinito con tutte le sue brutture, in attesa di una redenzione che riporti le persone nelle case, le lenzuola fresche di bucato stese sui letti, la frutta e la verdura sui banchi dei negozi di Shuhada Street.

Forse è proprio per questo, per ammazzare questa snervante ed interminabile attesa, che i palestinesi consumano così tanto caffè e così tanto tè. È il loro modo per diluire i pensieri e il sangue, fattosi ormai amaro e sempre in subbuglio. E infatti eccoci qui, a bere l’ennesimo caffè della giornata nel piccolo negozio di Munir. Il liquido scuro viene versato da un grosso thermos d’acciaio che Munir ha prontamente fatto comparire dal retrobottega non appena siamo entrati. Mentre riempie i venti e più bicchierini di plastica, ci spiega che il suo caffè è famoso in tutta Hebron per la speciale aromatizzazione di cui solo lui conosce la ricetta. Attirata dal tripudio di odori speziati sprigionato dal thermos, decido di accantonare la mia antipatia per il caffè e di non opporre resistenza alla mano di Munir che mi porge il bicchierino. Ed effettivamente al primo sorso il mio viso s’illumina: è una sintesi densa e perfetta di tutte le spezie che più apprezzo. Per la prima volta nella mia vita sperimento il piacere che deriva dal gustare un caffè.

Approfitto di questi attimi sospesi per osservare il luogo in cui ci troviamo. A prima vista sembra essere un comune negozio di souvenir, del tutto simile a quelli che si possono trovare in un qualsiasi angolo del mercato di Al-Quds o Betlemme. Gli scaffali che coprono le pareti laterali del locale sono pieni di oggetti di ogni genere, da tazze e ciotole decorate secondo lo stile dei famosi ceramisti di Hebron a meravigliosi tappeti tessuti a mano. Dal soffitto pendono kufiye di tutte le trame e i colori, mentre il muro in fondo al negozio è completamente ricoperto di borse e abiti finemente ricamati con la tecnica palestinese del tatreez.

Sarebbe il posto perfetto in cui abbandonarsi al piacere di qualche acquisto, se non fosse per la particolare collocazione con vista sui checkpoint. Ci troviamo infatti nel cuore del disabitato centro storico di Hebron, proprio davanti all’ingresso della moschea Al-Ibrahimi, il cui accesso è strettamente controllato dall’esercito israeliano dal lontano 1994. Fu in quell’anno, in una mattina di febbraio, in pieno Ramadan, che Baruch Goldstein – un ebreo americano trasferitosi nella colonia di Kiryat Arba nel 1983 – fece irruzione nella moschea gremita di fedeli raccolti in preghiera ed aprì il fuoco. 29 palestinesi vennero uccisi dai colpi di Goldstein all’interno della moschea, più di un centinaio rimasero feriti e molti altri ancora furono uccisi dall’esercito israeliano negli scontri scaturiti a seguito della strage.

Goldstein venne picchiato a morte dalla folla inferocita che riuscì a bloccarlo e ad impedirgli di sparare ancora, e tutt’oggi la sua tomba nella vicina colonia di Kiryat Arba è meta di pellegrinaggio per sionisti provenienti da Israele e non solo, che lo considerano una sorta di eroe. A seguito di questi tragici fatti, le autorità israeliane inscenarono un tentativo di indagini che portò ad etichettare sbrigativamente Goldstein come un uomo in preda ad un raptus che aveva agito in totale solitudine. Ma i fatti sembrano smentire questa tesi: tutti gli indizi e le testimonianze raccolte nel corso degli anni indicherebbero che Goldstein avesse agito con l’appoggio di altri coloni e, cosa ancor più grave, dell’esercito israeliano.

Inoltre, fu proprio a seguito di questa strage che Israele colse la palla al balzo per imporre la conversione di oltre metà degli spazi della moschea in sinagoga per i coloni, nonché la divisione della città in due zone – antefatto alla totale chiusura di Shuhada Street avvenuta negli anni duemila.

La storia di Munir, così come quella di tutti i palestinesi di Hebron, è indissolubilmente legata a questi avvenimenti. In quanto proprietario di un’attività commerciale che si trova proprio di fronte all’ingresso della moschea, Munir è stato il primo ad essere duramente colpito dalle dure restrizioni imposte dall’esercito dopo la strage. Per mesi e mesi Munir, da solo, ha continuato ad andare a bussare alla base militare israeliana di Hebron per contrattare personalmente sulla riapertura del suo negozio. E alla fine l’ha spuntata. Per questo, ci dice Abdallah aprendosi in un gran sorriso, a Hebron Munir è noto come “la Leggenda”.

Pigiati uno accanto all’altro nel piccolo negozio, al riparo dagli sguardi dei soldati appostati appena oltre la soglia, ci sistemiamo in uno scomposto semicerchio per ascoltare i racconti di Munir. Il suo inglese è fluente e il suo tono di voce invita all’ascolto, le folte sopracciglia nere si curvano continuamente in mille modi diversi seguendo il susseguirsi degli aneddoti. Munir accompagna le parole con delle fotografie plastificate che portano degli evidenti segni di usura. Ci mostra le differenze fra la caotica, vivace, rumorosa Hebron di prima e la spettrale Ghost Town di oggi. Ci fa vedere la barriera divisoria – ormai rimossa – piazzata nel mezzo della strada su cui affaccia la sua attività allo scopo di creare due aree di passaggio separate fra israeliani e palestinesi, e ci spiega come questo ostacolasse i suoi affari perché, guarda caso, il lato di passaggio dedicato agli israeliani era proprio quello del suo negozio. Ci spiega che il compromesso raggiunto con l’esercito occupante per la riapertura della sua attività prevedeva la vendita di una quota di prodotti di bellezza di produzione israeliana; con un sorriso beffardo ci indica l’angoletto dedicato a quella merce e ci dice che è sempre la stessa da anni: è tutto scaduto e quindi invendibile. Ci racconta divertito come, grazie alla sua ironia e alla sua parlantina, sia più e più volte riuscito a farsi beffe dei soldati e a registrare così testimonianze audio e video di abusi commessi dall’esercito ai danni dei residenti palestinesi.

Oggi Munir tiene aperto il suo negozio per pura dimostrazione di resistenza. I suoi affari sono pressoché nulli, essendo la zona principalmente frequentata da coloni o da turisti pro-Israele in visita alla sinagoga. Eppure lui, ogni mattina, si ostina ad alzare la serranda polverosa. Ben vestito, fiero e testardo, ogni giorno riafferma il proprio diritto ad esistere sotto gli occhi gelidi dei soldati.

Traendo vantaggio dal fatto che l’attenzione mediatica è principalmente concentrata sul genocidio in corso nella Striscia di Gaza, a partire dal 7 ottobre 2023 i i controlli invasivi, gli arresti arbitrari, le uccisioni, gli attacchi e gli abusi commessi da esercito e coloni israeliani a danno dei palestinesi sono aumentati notevolmente in tutta la Cisgiordania.

Nello specifico, a Hebron le ulteriori restrizioni introdotte sono tra le più dure registrate nell’intera regione. Come confermato dall’organizzazione per i diritti umani B’tselem, il 7 ottobre l’esercito ha imposto un divieto di movimento totale nella zona H2, giustificato con la necessità di proteggere i coloni israeliani. Per due settimane, 750 famiglie palestinesi non hanno potuto lasciare le proprie abitazioni nemmeno per rifornirsi di cibo, acqua e medicinali. A partire dal 21 ottobre l’esercito ha concesso la possibilità di rompere il coprifuoco per soli tre giorni a settimana: la domenica, il martedì e il giovedì i residenti palestinesi possono lasciare le proprie case per due ore al giorno, una al mattino e una alla sera. Considerando l’estrema difficoltà di movimento – checkpoint, controlli, perquisizioni corporali –, succede spesso che molti non riescano a fare rientro nella zona H2 entro l’orario stabilito e debbano quindi attendere la successiva apertura per poter tornare a casa.

Inoltre, come riportato da una fonte locale, anche i palestinesi residenti nella zona H1 sono di fatto bloccati dentro il perimetro cittadino. Non è stato emanato un vero e proprio divieto di movimento, ma tutte le direttrici principali sono state chiuse o sottoposte a strettissimo controllo militare, il che – considerando la frequenza e l’arbitrarietà di arresti e abusi – rende troppo rischioso il passaggio.

Come conseguenza, negozi e punti di ritrovo sono chiusi; i residenti palestinesi non possono recarsi a scuola o al lavoro, né tantomeno a visitare parenti e amici. La vita, a Hebron, è al momento completamente paralizzata.

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