Dio mi salvi dalle commedie, dai cosplayer Da chi sposa la causa solo quando gli conviene” Marracash, Cosplayer
Individualismo e mancata collettività nell’Attivismo Performativo
Nel mondo delle piattaforme social, dove le voci si moltiplicano e le cause vengono abbracciate e abbandonate con la stessa velocità con cui si scorrono gli hashtag, l’attivismo performativo è diventato una costante della nostra generazione.
Le parole forti e provocatorie di artisti come Marracash e Ghali denunciano una tendenza all’opportunismo e all’ipocrisia nell’abbracciare cause sociali. Tuttavia, per ottenere una prospettiva più approfondita su questo fenomeno abbiamo intervistato Nogaye Ndiaye, laureanda in giurisprudenza e divulgatrice antirazzista e transfemminista online e offline.
Ndiaye, con approccio Lucido e Riflessivo, getta luce sulla questione dell’attivismo performativo e su come distinguere tra chi abbraccia una causa per motivi e tornaconto (economici) personali e chi si impegna autenticamente.
Uno dei punti chiave dell’intervista è l’importanza della coerenza. Ndiaye sostiene che l’attivismo non può essere guidato unicamente da un tornaconto personale. Chi parla di violenza di genere o razzismo solo quando è trendy o quando porta vantaggi personali sta danneggiando la lotta reale contro ingiustizie che accompagnano costantemente la vità di comunità realmente marginalizzate.
L’attivismo performativo, afferma Ndiaye, mina l’impegno sincero di coloro che utilizzano le piattaforme per promuovere cause legittime e che a parte i social network non avrebbero alcuno spazio per potersi esprimere!
Questa gara al contenuto e alla presa di posizione rapida se il tema è cool e monetizzabile mette in cattiva luce chi invece ha realmente a cuore certe battaglie e compromette la credibilità di interi movimenti.
Come sottolinea Ndiaye, Il velo di Maya scivola via facilmente, dato che molte persone si schierano per una causa solo in momenti specifici e di massima visibilità, come può essere il Pride Month, il Black History Month o fatti di cronaca che viralizzano, per poi tornare ad un totale silenzio assordante.
Al contempo le stesse persone non si esprimono minimamente quando la questione può portare ad una riduzione dell’engagement delle proprie piattaforme o addirittura alla perdita di sponsor con cui collaborare.
Lo hanno detto bene sia Ghali che Sacky in questi giorni, commentando proprio il silenzio di tutte quelle persone che normalmente si espongono per ogni causa, ma non lo hanno fatto per la Palestina e le comunità Palestinesi:
“Vedo gente che di solito parla e prende posizione per qualsiasi cosa che questa volta ha orecchie coperte, gambe incrociate e braccia conserte. Tutti a partecipare a manifestazioni trendy sulle piattaforme e a sto giro avete paura di parlare?” Ghali
“IL MONDO CI HA ABITUATO A SOSTENERE LA CAUSA SOLO QUANDO È UN TREND O UNA MODA, MA QUI SUBENTRA UN FATTORE PIÙ IMPORTANTE: L’UMANITÀ
DOV’È LA VOSTRA UMANITÀ? COME FATE A DORMIRE LA NOTTE, COME FATE A VIVERE LA VOSTRA VITA TRANQUILLI?” Sacky
Ndiaye enfatizza l’importanza di riconoscere il proprio privilegio e passare il microfono a chi è direttamente coinvolto. Mettere al centro le persone coinvolte è fondamentale per evitare che l’attivismo si concentri unicamente sulla visibilità personale.
L’attivismo performativo, secondo Ndiaye, ha effetti devastanti soprattutto sui piccoli progetti e sulle comunità meno privilegiate, portando a faide digitali.
L’aggressività che ne consegue può poi portare ad escludere ancora di più le voci che quotidianamente vengono già silenziate e non trovano spazio; voci però che sono importanti e porterebbero all’ampliamento delle visioni e delle prospettive.
Riprendendo anche gli insegnamenti di bell hooks che ha scelto di non usare il suo nome all’anagrafe per pubblicare i suoi testi, Ndiaye propone uno spunto interessante per quel che concerne le piattaforme divulgative maggiormente seguite, legate tutte ad una persona singola:
“Sui social non si può fare attivismo se c’è la singola faccia di una persona, bell hooks ce lo insegna proprio con la scelta del suo nome: lei non voleva che tutto venisse attribuito solo a lei e ha scelto uno pseudonimo dalle iniziali in minuscolo.
Se nel trattare certe tematiche si usa la propria storia e il proprio nome ci si perde, anche io mi perdo!
Anche perché poi le persone sui social non si interessano realmente alla causa, ma alla persona.
Non ci si può fermare sui social: un post o una storia rimangono solo un post e una storia, il lavoro, nei limiti delle possibilità individuali, deve essere portato anche fuori, altrimenti manca tutta la parte della collettività.”
Ndiaye chiude l’intervista con un appello all’unità e al riconoscimento delle differenze: “le persone hanno modi diversi di vivere il femminismo e promuovere cause sociali, e questo non dovrebbe portare a divisioni o all’odio. Invece di cercare l’attivismo perfetto, dovremmo concentrarci sull’obiettivo comune, senza creare faide e odio, dal momento che già il mondo là fuori sta andando a rotoli”