Come è la vita in una cella?
“Qual è il tuo primo ricordo? Il mio è quando ero in carcere con i miei genitori”
Così inizia il film Rheingold di Fatih Akin, che racconta la vera storia di Giwar Hajabi, in arte Xatar, rapper e produttore musicale tedesco nato in Iran e di origini curde. La sua famiglia fu costretta a fuggire in Iraq, dove lui e i suoi genitori furono detenuti a Bagdad per 3 mesi.
Ed è stata proprio questa domanda a far emergere quei ricordi d’infanzia, che mi vedevano vagare nelle carceri italiane assieme a mia mamma per andare a trovare mio zio.
Inizialmente avevo 6 anni, poi 7 e infine 8, e assieme a mama prendevo treni con destinazioni diverse, non con lo scopo di visitare monumenti storici o musei, bensì quelle immense strutture in cemento, generalmente ai margini, che si ergono come grosse e grigie mura con finestre recitante.
Con noi avevamo i sacchetti della spesa e vestiti per D. All’ingresso dovevamo lasciare tutto allo sportello dei controlli: aprivano tutto e con i loro guanti controllavano la carne trita e le salsicce halal che piacevano tanto al fratello di mia mamma. Non sapevamo se poi avrebbe effettivamente visto tutto quello che gli avevamo portato, dato che, a quel punto, si passava ai controlli dei nostri corpi.
Una poliziotta donna toccacciava i nostri corpi, metteva le mani tra i capelli e si assicurava che non avessimo nulla in tasca.
Finito questo passaggio, dietro di noi si chiudeva una porta in metallo, per aprirsene un’altra davanti. La porta che ci conduceva alla sala degli appuntamenti.
Al suo interno eravamo grosso modo in 15/20, c’era molto caos e i partenti erano separati dai propri cari da un vetro.
Qui vedevamo finalmente Zio D, ci salutavamo e iniziavano le lunghe e sempre uguali conversazioni, accompagnate da fiumi di lacrime:
“Ti prego, aiutami ad uscire, mi sono pentito, non sbaglierò più”
“Qui mi trattano male”
“Non mangio nulla, il cibo è orribile”
“Mi insultano e litigo con i miei compagni di cella”
Si continuava così per un’ora per poi uscire, sapendo che Zio D. sarebbe rimasto bloccato dietro a quelle grige e spesse mura di cemento armato.
Non è stato l’unico incontro con le strutture detentive, dato che una decina di anni dopo è arrivato il turno di mio fratello, spedito a San Vittore per motivazioni ancora ignote.
Lui era stato aggredito fisicamente, lui aveva i lividi in faccia e la maglietta strappata, lui aveva ironicamente cercato aiuto dalla polizia, eppure proprio lui, assieme ad un suo amico, è stato chiuso in Carcere.
Una volta uscito, ha iniziato spontaneamente a raccontarmi di quella struttura.
“Sai Iman, non mi sono annoiato in carcere, alla fine è come le psichiatrie, sei rinchiuso, non hai niente da fare, guardi il soffitto e il tempo passa” diceva scherzando e paragonando il carcere appena conosciuto agli S.P.D.C. che accompagnavano la sua quotidianità dai 14 anni.
Iniziai a fargli alcune domande, proprio come ho fatto con tutte le persone che ho incontrato e che si sono ritrovate chiuse dietro quattro mura.
Io in una cella non sono mai stata, ma dai racconti che emergono vi sono tante, troppe similitudini, che devono essere conosciute da tutti, dato che la detenzione non è qualcosa di estremamente lontano e che non ci toccherà mai; è molto più vicina di quanto si pensi. Basta pensare che San Vittore si trova praticamente nel centro della città di Milano ed è quasi un simbolo del capoluogo lombardo.
Inoltre, c’è la tendenza comune a giudicare i detenuti, a dire che il carcere è il luogo che meritano, senza nemmeno immaginare come sia davvero una struttura detentiva dall’interno. Oggi, cerchiamo di immaginare un attimo cosa significhi sopravvivere in un carcere.
Il carcere, all’interno come all’esterno, è una dimensione di grigi, freddo e umidità, di porte blindate che sbattono e di spazi angusti,dove il rumore metallico delle serrature arrugginite diventa la colonna sonora della propria esistenza.
Al ingresso, sei spogliato e perquisito fino all’intimo, mentre le tue poche cose vengono scrutate e catalogate. La routine burocratica diventa un rituale disumanizzante, che fa sentire come un oggetto piuttosto che una persona, non a caso ti viene associato un numero di matricola.
ll numero di matricola identifica, nelle prime quattro cifre, il penitenziario di provenienza; nelle due successive l’anno di immatricolazione; nelle ultime il numero progressivo personale e servirebbe, oltre che a disumanizzare, “a visualizzare la posizione di ogni detenuto su tutto il territorio nazionale”.
Segue la visita medica e il colloquio psicologico di primo ingresso, dove bisogna mostrare ogni singola ferita o livido già presente sul proprio corpo, non sia mai che si vada a pensare che proprio all’interno di quella struttura ci si riempirà di lividi e ferite.
A questo punto viene assegnata la cella - uno spazio di 3 metri per 2, che non sarebbe chiaramente idoneo nemmeno per una persona - condivisa con estranei, persone che non hai mai visto e che diventano improvvisamente la tua famiglia.
Nucleo familiare, comunemente considerato un sinonimo di “famiglia”, designa un’unità sociologica che vive nello stesso alloggio.
In qualche punto (in cima a un castello o sotto nell’angolo), si troverà la brandina dedicata, vicina o attaccata all’armadio dove riporre i propri oggetti, al tavolino su cui poggia la tv, al tavolo del pranzo/delle lettere e al bagno, se così possiamo chiamarlo.
Tutto in un unico spazio, senza alcun tipo di privacy o rispetto della dignità della persona.
La tua famiglia in tempo zero condividerà le regole della cella: quando si mangia, i turni, chi cucina e chi pulisce i piatti, il pavimento e il “bagno”.
Da questo momento in poi le giornate si sussegueranno senza soluzione di continuità, monotone e senza speranza. La noia diventa il peggior nemico, mentre l’assenza di attività e di lavoro consuma lentamente. Anche quando ci sono opportunità di lavoro, sono riservate a pochi fortunati, mentre la maggior parte dei detenuti resta confinata nelle loro celle.
Il tempo si trascorre distesi a letto, in attesa…
- dei pasti scadenti, dopo i quali molti, troppi, devono assumere la farmacoterapia a base di antidepressivi e ansiolitici;
- della fatidica “ora d’aria”, trascorsa passeggiando in un cortile di cemento circondato da cemento.
- del giorno della visita. Non importa quanti figli hai o quanti affetti lasci fuori dal carcere: i familiari potranno venirti a trovare una sola volta alla settimana, per non più di un’ora.
Gli abusi sono routine, sia da parte delle autorità (dalla guardia alla direzione fino alla magistratura di sorveglianza) che da parte dei propri compagni.
Monotonia, condizioni di vita fatiscenti, reclusione, assenza di luce ovviamente portano ad un esacerbazione della violenza e se non si è all’altezza di potersi difendere o se non si hanno amici “influenti”, in carcere si diventa carne da macello.
In tutto questo, si cerca di trovare un senso, una via d’uscita da questa prigione di cemento e ferro. Tuttavia, con il passare dei giorni, si comprende che il vero carcere non è costituito solo da mura e porte, ma anche da pregiudizi e indifferenza. Mentre il tempo trascorre lentamente, ci si aggrappa alla speranza che un giorno si possa tornare a vivere libero, altrimenti, si rischia di non sopravvivere. Dal 1992 al 2024 1.737 persone si sono tolte la vita in carcere.