Biopolitiche sioniste: come i diritti riproduttivi sono sfruttati nel colonialismo di insediamento israeliano

Biopolitiche sioniste: come i diritti riproduttivi sono sfruttati nel colonialismo di insediamento israeliano

Di Camilla Donzelli

Nel racconto mediatico dell’attacco perpetrato da Israele nei confronti della popolazione palestinese si fa prevalentemente uso di termini come “guerra” e “conflitto”. Sono parole fuorvianti, che sottintendono una simmetria di ruoli e risorse in realtà del tutto inesistente. Ciò che meglio descrive il rapporto di forza fra Israele e Palestina è, al contrario, la dicotomia colono/nativo. Tuttavia, anche all’interno di questa specifica struttura di potere, occorre fare un’importante distinzione. Nell’ambito dei settler colonial studies sono state infatti elaborate due principali categorie coloniali: da una parte il colonialismo classico, orientato allo sfruttamento delle risorse, della manodopera e dei mercati indigeni; dall’altra il colonialismo di insediamento, che punta invece all’appropriazione della terra tramite l’eliminazione della popolazione nativa e la sua sostituzione con una comunità aliena. 

Il sionismo – pilastro ideologico della fondazione dello stato di Israele – ricade nella seconda categoria. Nel corso del tempo, infatti, il piano di eliminazione della popolazione palestinese si è apertamente manifestato in varie forme. Prime fra tutte la Nakba e la Naksa, le due espulsioni di massa avvenute rispettivamente nel 1948 e nel 1967. Non meno importanti – e anzi, forse ancora più allarmanti in quanto ormai normalizzate –, la sistematica disumanizzazione dei palestinesi, la segregazione spaziale, le politiche discriminatorie e di de-sviluppo economico, la brutale soppressione di ogni forma di resistenza, la distruzione fisica e simbolica del patrimonio culturale. 

Tali pratiche non rappresentano una deriva estremista accidentale, ma sono bensì i veri e propri strumenti operativi di una corrente politica che nasce e si sviluppa a partire da un’ideologia intimamente esclusivista e suprematista. A conferma di ciò, già nel 1965 il fondatore del Centro di Ricerche dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Fayez A. Sayegh identificava il sionismo come una forma di colonialismo del tutto particolare. Nello specifico, Sayegh ne indicava due caratteristiche distintive: il violento sradicamento della popolazione indigena e la sua sostituzione con una comunità di coloni che rivendica controllo territoriale e sovranità politica esclusivi. 

In un contesto in cui l’obiettivo primario dell’occupante è fare tabula rasa per l’edificazione di un nuovo “focolare nazionale”, la popolazione storicamente presente sul territorio reclamato diventa un ingombro, un ostacolo da depotenziare con ogni mezzo fino al completo annichilimento. Ed è qui che entrano in gioco le prassi biopolitiche attuate a livello statale, la cui differenziazione basata sull’identità etnica assume un ruolo cruciale nel perseguimento del piano coloniale di insediamento. 

Nell’ambito della biopolitica il corpo delle donne è un campo di battaglia da sempre molto battuto. La sua capacità riproduttiva lo rende infatti il bersaglio preferito di tutti quei dispositivi di potere che mirano al controllo della popolazione, sia esso di segno positivo o negativo. Il confronto fra le policy riproduttive che Israele applica alla popolazione femminile israeliana e quelle, invece, riservate alle donne palestinesi mette in luce come la violenza perpetrata ai danni di donne e neonati non sia un mero effetto collaterale della campagna militare iniziata lo scorso 7 ottobre, ma vada piuttosto letta attraverso la lente del colonialismo di insediamento. 

Sul sito web del Ministero della Salute israeliano è possibile trovare un’intera sezione dedicata alla fecondazione in vitro. Qui si legge che le spese per questo tipo di trattamento – solitamente molto dispendioso, con un costo che parte da un minimo di svariate migliaia di euro a ciclo – sono completamente coperte dal sistema sanitario pubblico per il concepimento sia del primo che del secondo figlio. I trattamenti vengono somministrati a donne israeliane dai 18 ai 45 anni, e sono offerti sia a coppie che a donne intenzionate ad intraprendere il percorso genitoriale da sole.

Si tratta di un caso unico al mondo, che va necessariamente contestualizzato entro un discorso pubblico che erige la maternità a missione nazionale. Le donne vengono infatti integrate nel corpo statale e sociale non in quanto cittadine, ma in quanto depositarie di quelle capacità riproduttive necessarie all’attuazione del piano di insediamento sionista. Fertilità e diritti riproduttivi assumono dunque una valenza altamente politica ed etno-nazionalista; il risvolto pratico è che Israele è uno dei paesi in cui si fa più ricorso alla fecondazione assistita in tutto il mondo. 

All’opposto, un  resoconto pubblicato da UNFPA descrive quali fossero le difficoltà di accesso delle donne palestinesi alla salute riproduttiva e neonatale già ben prima della fine del 2023. Il rapporto mette insieme i dati raccolti sul campo dal 2020 al 2022, dati da cui emerge una situazione di costante crisi. Già in quel periodo, il tasso di mortalità materna mostrava evidenti segni di peggioramento, con un picco di incremento del 67% registrato nel passaggio fra il 2020 e il 2021; inoltre, una donna incinta su quattro si trovava ad affrontare complicazioni ad alto rischio, le nascite premature si verificavano in circa il 23% dei casi e un totale di 94.000 donne erano completamente escluse dall’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva. Secondo UNFPA, tali statistiche sono da ricondurre all’inadeguata accessibilità e alla scarsa qualità delle cure nei territori occupati, dovute alla carenza di operatori, di farmaci essenziali e di attrezzature mediche. Il rapporto evidenzia inoltre come il sovraccarico delle strutture sanitarie abbia nella quasi totalità dei casi determinato dimissioni precoci e una scarsa frequenza delle visite di controllo prenatali e postnatali, contribuendo a ridurre drasticamente la rete di assistenza necessaria. 

Un altro resoconto, pubblicato da Medici Senza Frontiere nel 2022, descrive la situazione dei palestinesi residenti nella zona H2 di Hebron, in Cisgiordania. Fino al 2021, a fronte di 42.000 residenti palestinesi, in quest’area era presente soltanto una struttura sanitaria gestita dal Ministero della Salute palestinese; l’organizzazione Medici Senza Frontiere ha aperto una propria clinica per coadiuvare le attività della struttura locale, del tutto insufficiente per soddisfare i bisogni di un bacino di utenza così ampio. La particolarità di questa zona è che i palestinesi sono soggetti a severe restrizioni. I numerosi checkpoint rendono gli spostamenti difficoltosi, se non spesso impossibili, impedendo di raggiungere le strutture sanitarie. È inoltre vietato guidare veicoli, compresi quelli di emergenza come ambulanze o mezzi dei vigili del fuoco. Come sottolineato da MSF, ciò si ripercuote soprattutto sull’accesso e la tempestività delle cure per le persone più vulnerabili, come donne incinta e neonati. 

Siamo quindi di fronte ad un assalto sistemico, radicato nel tempo e consolidato nei metodi. E l’assedio della Striscia di Gaza, lungi dall’inaugurare strategie oppressive mai sperimentate prima dalla macchina coloniale israeliana, non ha fatto altro che svelare la crudeltà della violenza riproduttiva agita sul corpo delle donne palestinesi. 

Per cominciare, l’intensificarsi dell’assedio militare sulla Striscia di Gaza ha acuito drasticamente la povertà mestruale. Il taglio dell’approvvigionamento idrico da parte di Israele, l’impossibilità di reperire prodotti per l’igiene mestruale come assorbenti e tamponi, e la permanenza forzata in accampamenti sovraffollati in cui i servizi igienici sono scarsamente accessibili espongono le donne ad una serie di rischi (come infezioni del tratto urinario o la trasmissione di epatite B) capaci di intaccare la salute riproduttiva e ridurre la fertilità. In condizioni di vita così estreme, la soluzione adottata da molte donne è l’assunzione di pillole di noretisterone, un farmaco in grado di ritardare le mestruazioni. Il noretisterone è normalmente utilizzato dietro prescrizione medica per curare specifiche patologie legate all’apparato riproduttivo; se assunto senza supervisione, può causare effetti collaterali come sanguinamento vaginale irregolare, nausea, cicli mestruali fluttuanti, vertigini e sbalzi d’umore. 

Inoltre, già il 12 ottobre 2023 l’International Planned Parenthood Federation segnalava che nei mesi successivi oltre 37.000 mila donne in gravidanza avrebbero partorito in condizioni estreme, senza elettricità ed equipaggiamento medico, rischiando complicazioni potenzialmente mortali. La previsione dell’IPPF si è rivelata corretta, con conseguenze catastrofiche.

Secondo quanto riportato dagli operatori sanitari di Gaza, a partire dal 7 ottobre gli aborti spontanei sono aumentati del 300%. Lo stato di costante stress e terrore, la mancanza di cibo e acqua, l’impossibilità di accedere a strutture e trattamenti sanitari sono tutti fattori che incidono sulla salute della madre e, di conseguenza, su quella del feto. Inoltre, a causa della distruzione di gran parte delle strutture ospedaliere e del blocco imposto sull’ingresso di equipaggiamento medico e sull’approvvigionamento di elettricità, i parti naturali e i tagli cesarei vengono eseguiti senza anestesia e in scarsissime condizioni igieniche. Questo, unitamente alle dimissioni forzate a poche ore dal parto a causa del sovraffollamento degli ospedali, espone le neo madri ad un altissimo rischio di emorragie ed infezioni. Tali rischi si estendono anche ai neonati, soprattutto quelli nati prematuramente: la mancanza di un ambiente sterile, di trattamenti adeguati e di personale specializzato spesso ne causano la morte. 

Le prassi biopolitiche attuate dallo Stato di Israele si estendono però ben oltre il corpo delle donne, arrivando ad investire la fertilità maschile e l’intera sfera della pianificazione familiare. Anche qui, il confronto aiuta a smascherare la violenza di matrice colonialista. 

In Israele, la possibilità di prelevare un campione di sperma dal corpo di un soldato deceduto esisteva già da tempo; la procedura poteva infatti essere avviata senza difficoltà e senza particolari passaggi burocratici direttamente dalla vedova dell’interessato. In passato si erano verificati casi di richieste avanzate dai genitori di un deceduto non sposato, ma la legge prescriveva un processo lungo e complicato che doveva necessariamente passare per l’ordinanza di un giudice. Dopo il 7 ottobre, a seguito della morte di alcuni soldati dell’IDF negli scontri con la resistenza palestinese, la richiesta da parte delle famiglie di snellire la procedura si è fatta pressante. Il 9 novembre 2023 il Ministero della Salute israeliano ha rimosso gli ostacoli giudiziari all’avvio del recupero di sperma, annunciando anche l’istituzione di un’unità speciale attiva giorno e notte per predisporre il prelevamento nel più breve tempo possibile. Il 15 novembre 2023, la Knesset ha annunciato che dall’inizio degli scontri in ottobre era già stato estratto lo sperma di 39 soldati

Ben diversa è la situazione dei diritti riproduttivi degli uomini palestinesi trattenuti nelle carceri israeliane. Secondo il diritto internazionale, i detenuti hanno diritto al riconoscimento dell’affettività e della sessualità; ciò include non solo le classiche visite familiari, ma anche la possibilità di ricevere visite coniugali che permettano il concepimento. Negli istituti penitenziari israeliani tali visite non vengono concesse, con un’ulteriore aggravante: la stragrande maggioranza dei palestinesi sono trattenuti in detenzione amministrativa, senza quindi un capo d’accusa dichiarato che potrebbe eventualmente giustificare una restrizione di questo tipo. In risposta a questa misura arbitraria, a partire dal 2012 si è andata diffondendo la pratica del contrabbando di sperma. È un processo complicato e potenzialmente rischioso, che richiede molta pianificazione e il coinvolgimento di più persone per il trasporto e la consegna. Eppure, nonostante l’enorme difficoltà e con tutti i limiti del caso, il metodo sembra funzionare: stando agli ultimi dati, risalenti a metà del 2023, i bambini nati in Cisgiordania con il contrabbando di sperma sono 115. 

Ma la guerra ai diritti riproduttivi dei palestinesi non si ferma di certo qui. Quando il contrabbando di sperma funziona, ci sono delle ritorsioni. I prigionieri responsabili del concepimento vengono spesso messi in isolamento e privati del diritto alle visite familiari. Cosa ancor più grave, i bambini nati con questo metodo non vengono riconosciuti dallo Stato israeliano: un’intera generazione di bambini fantasma, privi di diritti, colpevoli di rappresentare un ingombro in più per il piano di insediamento sionista.