Baby Gang e Simba La Rue Oltre le Etichette Mediatiche e Sociali

Baby Gang e Simba La Rue Oltre le Etichette Mediatiche e Sociali

Milano - 15 novembre
Dopo più di un anno dall’arresto di Baby Gang e Simba La Rue, arresto che già allora sapeva tanto di una punizione non tanto per la vicenda in sé quanto per chi ne aveva preso parte, è arrivata la condanna da parte della PM per gli otto imputati.

Baby Gang e Simba La Rue sono stati condannati rispettivamente a 6 anni e 4 mesi e 5 anni e 2 mesi nel processo con rito abbreviato.

Ora, non volendo entrare nel merito processuale, ci interessa porre l’accento sull’operazione mediatica che questa vicenda ha assunto e la narrazione che ne è seguita. 

Sappiamo che le agenzie di controllo e dei media agiscono all’unisono, «in una relazione di dipendenza funzionale caratterizzata da reciprocità», amplificando l’importanza e il sensazionalismo delle vicende al fine di abilitare una narrazione in cui viene costruito un diavolo popolare, un capro espiatorio responsabile di tutti i mali che colpiscono la nostra società. Questa interdipendenza si manifesta nei virgolettati dei giornalisti che riprendono le parole dei giudici con l’obiettivo, dichiarato o meno, di rappresentare dei mostri: se i due ragazzi feriti diventano delle figure incorporee identificati esclusivamente come i “i due senegalesi”, gli altri assumono invece le sembianze del male, colpevoli non tanto per la rissa o per la rapina ma per averle commesse nonostante «i loro contratti e i loro cachet». 

L’ostilità di queste parole oltre a rispecchiare l’incomprensibilità piccolo-borghese verso l’emergere di percorsi di vita non convenzionali che «rappresentano il contraltare delle trasformazioni economiche del presente», rappresentano anche l’ostilità verso giovani che hanno rifiutato a modo loro il determinismo sociale a cui erano destinati in quanto persone razzializzate e costrette ai margini.  

E così, mentre il sipario si chiude su questa tumultuosa udienza, ci troviamo a riflettere su un’intera opera, una trama tessuta dalla società e dai media, che ha cercato di dipingere questi giovani artisti come i cattivi della storia. 

Ma non dimentichiamoci di una cosa importante: nella realtà, non esistono solo due colori nel nostro mondo, non solo il nero e il bianco. 
Questi otto ragazzi, siano essi Baby Gang, Simba la Rue, o i loro amici, sono esseri umani complessi, ognuno con la propria storia, con le proprie lotte e con i propri sogni. 

Non possiamo ridurli a semplici “cattivi” in una storia che va ben oltre le parole dei giornalisti.
Questo caso rappresenta una sfida alla nostra società, una prova di quanto sia difficile per i giovani di “seconda generazione” sfuggire alle etichette e alle aspettative sociali. 

Dov’è la giustizia in tutto questo? Dov’è la giustizia per questi giovani che cercano di trovare la loro strada in un mondo che altro non è, se non ostile? Dov’è la giustizia per un sistema mediatico che troppo spesso cerca di creare mostri invece di cercare la verità? Questo non è stato solo il loro processo, ma anche il nostro come società civile. 

Dobbiamo sfidare la narrazione preconfezionata, dobbiamo cercare la verità al di là delle parole stampate e delle dichiarazioni sensazionalistiche. Dobbiamo cercare la giustizia, non solo per loro, ma per tutt* coloro che lottano per trovare la loro voce in un mondo che fa di tutto per metterl* a tacere.
Il verdetto finale è stato scritto dalla “legge”, ma il verdetto morale spetta a ciascuno di noi. 

In quale storia vogliamo credere? In quella che ci viene imposta o in quella che cerchiamo di scoprire da sol*? Siamo chiamat* a riflettere su queste domande e a trovare la nostra risposta, perché alla fine, siamo tutt* protagonisti di questa storia.

Victor Hugo in “i Miserabili” scriveva: 

“Amici miei, tenete a mente questo: non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori.”

Questa citazione ci ricorda che ogni individuo, come una pianta, ha il potenziale per crescere e fiorire se riceve il sostegno di cui ha bisogno e si trova in un ambiente di supporto. 

Non dovremmo giudicare rapidamente o etichettare le persone in base a ciò che sembrano essere in superficie, ma dovremmo scavare più a fondo cercando di capire le loro storie, le loro sofferenze , le loro sfide e le loro aspirazioni.

Nel contesto del caso che abbiamo discusso queste parole di Hugo ci invitano a guardare oltre le semplificazioni mediatiche e le etichette superficiali.

Ci incoraggiano a considerare il contesto più ampio, a comprendere che la nostra società, come coltivatrice, ha un ruolo importante nel plasmare le vite delle persone. 
Dobbiamo essere coltivatori/rici compassionevoli offrendo opportunità e supporto a coloro che cercano di superare le proprie difficoltà per muoverci insieme a loro in mezzo al conflitto quotidiano.
Ricordiamoci di essere e di diventare coltivatori/rici migliori, di tendere una mano a coloro che ne hanno bisogno, di cercare la verità al di là delle apparenze e di non accontentarci delle narrazioni egemoniche. 
Solo in questo modo possiamo sperare in un presente e un futuro in cui ogni individuo abbia la possibilità di crescere e fiorire liber* dalle etichette che gli vengono applicate.