I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR)

I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR)

Lager di Stato e Violazione dei Diritti Umani

I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) rappresentano uno dei tanti aspetti problematici delle politiche migratorie italiane. Queste strutture, create per “ospitare” persone con background migratorio in attesa di essere rimpatriate, rappresentano un non luogo di violazione dei diritti umani.

I CPR nascono nel 2017 dall’approvazione del decreto Minniti-Orlando, per sostituire i CIE, Centri di Identificazione ed espulsione. Il loro scopo è quello di forzare il rimpatrio di persone extracomunitarie in seguito ad un periodo di identificazione della durata massima (teorica) di 15 giorni.

Attualmente, risultano attivi 10 CPR con una capienza massima di 1100 posti; la loro gestione è privata e il costo complessivo dal 2018 al 2021 è stato di 44 milioni di euro.

Cifre impressionanti che lo Stato italiano ha rilasciato ad enti privati, come Gepsa, che gestisce il CPR di Torino. Gepsa Italia ha come società madre Engie Italia, che a sua volta fa parte di Engie Francia. Engie è a sua volta una multinazionale francese che opera in diversi settori (dall’energia rinnovabile, alla prestazione di servizi, fino alla gestione di strutture di detenzione) e che, nel 2020, ha “vantato” un fatturato di quasi 60 miliardi. Parliamo di vere e proprie multinazionali che ricevono finanziamenti statali per mantenere attive delle fabbriche di detenzione che violano i diritti umani.

Trattandosi di gestione legata ad enti privati è bene sottolineare che questi si basano, come tutte le multinazionali, sulla massimizzazione del profitto, di conseguenza l’attenzione ai bisogni delle persone trattenute è inesistente. Gli standard igenici e dei servizi all’interno di questi centri, non rispettano, in molti casi, gli standard dettati dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura.

La funzionalità della detenzione amministrativa nei CPR ai fini del rimpatrio è stata oggetto di dibattito da parte di diverse organizzazioni, tra cui la rete NO AI CPR e la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che hanno ritenuto questa misura illegittima e inutile, dato che l’obiettivo principale della detenzione amministrativa, ovvero preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento, non si concretizza nella maggior parte dei casi:

Dal 2014, di tutte le persone cui è stato imposto un ordine di rimpatrio, non ne sono mai state effettivamente rimpatriate più del 24%. Secondo le analisi Cild, la quota sale al 50% per quanto riguarda i migranti detenuti nei Cpr. Ciò significa che la metà delle persone detenute all’interno dei Cpr sono trattenute spesso per molti mesi, per poi essere rilasciate e trovarsi comunque in una condizione di irregolarità.

I CPR, oltre ad essere dei luoghi di inadempimento dell’obiettivo primario (il rimpatrio), venendo comunque a costare alle casse milioni di euro riconfermati nella manovra finanziaria 2023, sono effettivi lager di stato di violazione dei diritti umani.

Diritti Violati

Diritto alla salute

Il diritto alla salute garantito dall’art. 32 della costituzione non dovrebbe subire limitazioni durante la detenzione amministrativa, ma nei CPR la teoria e la pratica occupano due dimensioni distinte e non comunicanti.

Nonostante le disposizioni previste nel Regolamento Unico CIE siano chiare nel richiedere che vi sia una prima visita per il rilascio del certificato di idoneità all’ingresso ed al trattenimento dello straniero e che questa venga effettuata esclusivamente da un medico della ASL o dall’azienda ospedaliera, nei diversi CPR si verificano delle gravi prassi difformi: ad esempio nel CPR di Torino, tale certificato di idoneità viene rilasciato da un medico dell’ente gestore e non del SSN, con detenzione di persone che per condizioni di salute non dovrebbero trovarsi in quei luoghi.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha definito “particolarmente critica” la situazione riguardante l’adeguatezza dei servizi sanitari previsti all’interno dei CPR. In particolare, oltre alle perplessità di ordine generale relative all’affidamento ad un soggetto privato dell’assistenza sanitaria, il Garante evidenzia: la mancanza di personale sanitario adeguatamente formato in materia di medicina delle migrazioni; la totale assenza di protocolli o interventi di prevenzione dei rischi, nonostante i numerosi episodi di autolesionismo che si verificano nei Centri. Le criticità derivanti dal drastico calo del monte ore settimanali dedicato ai servizi alla persona, a partire dai servizi sanitari.

L’assistenza psichiatrica nei CPR è quasi del tutto assente e anche il monitoraggio dei casi psichiatrici e la somministrazione degli psicofarmaci è gestita dagli psicologi e dagli infermieri incaricati dall’ente gestore e non dal SSN.

Inoltre, le persone trattenute vengono “tenute buone” tramite un uso di ansiolitici eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico.

Diritto di informazione

Nonostante il CPT (Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura) ha evidenziato come i migranti debbano essere “espressamente informati in una lingua a loro comprensibile, dei loro diritti e della procedura che potrà essere applicata”, ciò viene costantemente a mancare.

Diritto di difesa (art. 24 Cost.)

Il CPT afferma come i migranti in situazioni di irregolarità detenuti nei Centri, fin dalle prime fasi della privazione della libertà, devono godere del diritto fondamentale di aver accesso ad un avvocato, comprendendo quest’ultimo “il diritto di intrattenersi senza testimoni con il legale e di avere accesso a consulenze giuridiche sulle questioni legate al soggiorno, al trattenimento e all’espulsione”.

Ma il 45,5% degli avvocati e avvocate, che hanno compilato il questionario somministrato da CILD, hanno evidenziano come siano state poste dall’amministrazione delle limitazioni nell’accesso ai Centri per lo svolgimento dei colloqui difensivi con i propri assistiti.

Quanto alle modalità di svolgimento dei colloqui difensivi all’interno dei CPR, desta non poche preoccupazioni il fatto che il 45,5% degli avvocati e avvocate abbia evidenziato come non sia garantita la riservatezza degli stessi.

Il 90% degli avvocati e avvocate afferma che durante i colloqui difensivi non vi era la presenza di un interprete.

Infine, vengono evidenziati i tempi ridottissimi delle udienze: tra i 5 e i 10 minuti nel 63,6% dei casi; tra i 10 e i 20 minuti per il restante 36,4%.

Non a caso, l’avvocata Manconi, che assiste alcuni trattenuti nel CPR di Macomer, definisce le udienze di convalida come una “udienza farsa”, una “mortificazione del diritto difesa”, in cui gli spazi per la difesa -appunto- sono strettissimi.

Diritto alla relazioni affettive e la libertà di comunicazione. In particolare: il diritto alla corrispondenza telefonica

Il c.d. Regolamento unico CIE (ora CPR) del 20 ottobre 2014, ha sempre garantito “le comunicazioni telefoniche con l’esterno, a mezzo di apparecchi telefonici fissi installati nel Centro in luoghi di libero accesso agli stranieri e in un numero non inferiore a un apparecchio per ogni quindici persone”

Eppure, nonostante l’esistenza del quadro normativo, il diritto alla libertà di corrispondenza degli stranieri trattenuti sembrerebbe avere una portata più teorica che pratica.

Il sequestro dei cellulari personali, il numero ridotto di apparecchi telefonici fissi e l’impossibilità di ricevere chiamate in entrata sono, infatti, solo alcune delle criticità (arbitrariamente implementate nei CPR) che giorno dopo giorno ledono la dignità umana dei migranti.

Conclusione

Come afferma CILD i CPR prendono a tutti gli effetti la sembianza di Buchi neri, luoghi opachi e impenetrabili da nessuno, ma anche “buchi neri” del diritto dove sono violati o a rischio numerosi principi che costituiscono il fondamento dell’ordinamento giuridico interno e internazionale. Buchi neri in cui ad oggi sono venute a mancare 42 persone con la complicità e il silenzio di un intero stato.

Fonti