76 anni dalla Nakba del 1948 e la Continua Pulizia Etnica del popolo Palestinese
Di Camilla Donzelli
Il 14 maggio del 1948 il leader sionista David Ben Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele. La propaganda israeliana inserisce tale evento in un contesto che, fin da subito, viene descritto come una “guerra”: la Guerra Arabo-Israeliana, prima di una serie di conflitti che verranno acriticamente assorbiti dalle storiografie ufficiali delineando una contrapposizione di responsabilità in gran parte sbilanciata verso i Paesi arabi confinanti.
In realtà, andando ad analizzare la storia e le dinamiche del movimento sionista, appare chiaro come quella “guerra” fosse in realtà un chiaro e spudorato piano di pulizia etnica della popolazione indigena palestinese. Il 1948 è infatti l’anno rimasto inciso nella memoria collettiva palestinese come al-Nakba, “catastrofe” in arabo, e il 15 maggio di ogni anno, in corrispondenza dei festeggiamenti per la fondazione dello Stato di Israele, si commemora l’espulsione di massa che ha condannato generazioni di palestinesi all’esilio. La scelta di tale data è fortemente simbolica, come a voler sottolineare la violenta dissonanza fra la narrazione propagandistica israeliana di matrice coloniale e la realtà di un popolo indigeno aggredito e spossessato nell’indifferenza generale.
Tuttavia, a dispetto della scelta di un giorno specifico, la Nakba non è da considerarsi come un evento temporalmente circoscritto. Al contrario, il 1948 segna soltanto l’inizio di un processo sistematico di pulizia etnica che non ha mai smesso di operare e che è, ancora oggi, nel pieno della sua attuazione.
Per comprendere appieno la natura profondamente e inarrestabilmente intenzionale del progetto di epurazione ideato dall’entità sionista, occorre analizzare la storia del movimento a partire dai suoi albori.
Nel 1896 viene pubblicato in Austria il pamphlet Der Judenstaat a firma di Theodor Herzl, in cui si afferma che l’unica soluzione ai pogrom e alle pratiche discriminatorie che colpiscono gli ebrei russi ed europei sia la fondazione di uno stato ebraico, etnicamente e religiosamente omogeneo. Il luogo individuato è la Palestina storica: l’assunto di base è che – a dispetto delle differenze culturali proprie di ciascuna minoranza – il popolo ebraico sia un gruppo unitario, accomunato da un legame ancestrale con quella Terra Promessa a cui si fa riferimento nell’Antico Testamento. Durante il primo congresso sionista, tenutosi a Basilea nel 1897, viene stilato un documento programmatico in cui si chiariscono gli obiettivi del movimento: stabilire un focolare nazionale per il popolo ebraico nell’Eretz-Israel, incoraggiando “con mezzi appropriati l’insediamento di agricoltori, artigiani e fabbricanti ebrei”.
Nel 1901, durante il quinto congresso sionista, viene creato il Jewish National Fund, agenzia che diventerà lo strumento principale di colonizzazione della Palestina. Come spiega lo storico Ilan Pappé in un suo articolo per il Journal of Palestine Studies, il JNF nasce con lo scopo di acquistare e gestire appezzamenti di terra e proprietà destinati all’insediamento dei coloni ebrei in arrivo dall’Europa. E sarà proprio in seno a quest’agenzia che a partire dal 1940, su iniziativa dello storico Ben-Zion Luria, partirà un progetto pilota di “inventario” di tutti i villaggi arabi presenti in Palestina. Il risultato, sempre come spiegato da Pappé, è una dettagliata mappatura topografica che include, fra il resto, informazioni quali le strade di accesso, la fertilità del suolo, l’età media degli uomini, la composizione socio-politica e l’affiliazione religiosa della comunità. Viene aggiunto anche un cosiddetto “indice di ostilità”, calcolato sulla base delle liste di nomi di persone che hanno preso parte alla rivolta del 1936-1939, con particolare attenzione agli individui accusati di aver aggredito o ucciso degli ebrei.
Parallelamente alla mappatura dei villaggi, a partire dal 1937 cominciano ad essere elaborati dei piani di militari finalizzati all’acquisizione definitiva del territorio palestinese. I piani si sviluppano nell’ambito delle milizie armate ebraiche – prime fra tutte, l’Haganà, l’Irgun e la Banda Stern –, che più in là diventeranno attrici principali delle operazioni di pulizia etnica.
Nel 1947, dietro richiesta del Governo britannico che ormai fatica a gestire i flussi di ebrei provenienti dall’Europa e diretti verso la Palestina mandataria, viene istituita l’UNSCOP. Si tratta di una commissione speciale, incaricata di elaborare delle proposte per la futura gestione politico-amministrativa della Palestina. Come spiega Cecilia Dalla Negra nel suo libro Si chiamava Palestina, storia di un popolo dalla Nakba a oggi, la vicenda della nave Exodus e l’orrore dei campi di concentramento che viene svelato subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, unitamente all’approccio imperialista abbracciato da USA e movimento sionista, sono alcuni degli elementi che contribuiscono a dare i natali alla Risoluzione 181, che vedrà il popolo palestinese silenziato ed escluso dai negoziati.
Nel novembre dello stesso anno le Nazioni Unite approvano la Risoluzione, contenente il Piano di Partizione della Palestina. Il 55% del territorio viene assegnato alla popolazione ebraica, al tempo composta da circa 500mila persone dislocate su una porzione di terra pari al 6%. Alla popolazione indigena palestinese, 1.8 milioni di persone, viene invece assegnato solo il 42%. La Risoluzione prevede la creazione di due entità statali separate, da costituirsi in un periodo di transizione di due anni, e pone Gerusalemme sotto un regime speciale a controllo internazionale. In ultimo, invita le forze mandatarie a ritirarsi entro l’estate del 1948.
La Risoluzione rappresenta una palese violazione dei diritti della popolazione indigena, che viene enormemente penalizzata per fare spazio ad una minoranza con chiari intenti coloniali. E infatti il leader sionista Ben Gurion, seppur non soddisfatto dei risultati ottenuti, accetta il Piano per ragioni puramente strategiche: si serve della diplomazia ufficiale per dare legittimità alle azioni del movimento sionista, portando avanti al contempo delle operazioni di conquista militare finalizzate all’espansione del controllo territoriale. D’altra parte, le intenzioni della leadership sionista erano state esplicitate già da tempo. Nel suo libro, Cecilia Dalla Negra riporta il passaggio di una lettera scritta da Ben Gurion al figlio Amos nel 1937: “Uno Stato ebraico costruito solo su una porzione della terra non è la fine del processo, ma solo l’inizio […]. È uno strumento potente per la nostra storica intenzione di liberare l’intero paese […]. Non vedo la spartizione come la soluzione definitiva della questione palestinese. Dopo la formazione di un esercito forte nel quadro della fondazione dello Stato, aboliremo la spartizione e ci estenderemo su tutta la Palestina […]. Dobbiamo cacciare gli arabi, e prendere il loro posto.”
Non sorprende quindi che, come rilevato da Ilan Pappé, la versione finale della mappatura dei villaggi palestinesi, risalente proprio al 1947, comprendesse degli elementi utili all’implementazione di attacchi militari: lo stato di sicurezza di ciascuna comunità, la presenza o meno di armi e liste di persone ricercate. Così come non sorprende che, nel marzo del 1948, la leadership sionista abbia diffuso il Piano Dalet, un documento che indicava le coordinate del futuro Stato di Israele e assegnava a ciascuna milizia una lista di villaggi da attaccare, illustrando in gran dettaglio i metodi da utilizzare. Come riportato da Walid Khalidi nel libro Master Plan for the Conquest of Palestine, nel Piano Dalet si leggeva: “Queste operazioni potranno essere condotte nei seguenti modi: distruggendo i villaggi (incendiandoli o facendoli saltare in aria e poi mettendo mine nei detriti), soprattutto i centri abitati che sono difficili da controllare in modo permanente; o con operazioni di setacciamento e controllo con le seguenti modalità: si accerchia il villaggio e si fanno perquisizioni. Se c’è resistenza le milizie armate dovranno essere eliminate e la popolazione espulsa fuori dai confini dello Stato.”
In realtà le operazioni di pulizia etnica erano già cominciate nel dicembre del 1947, con il massacro avvenuto nel villaggio di Balad al-Shaykh. Ma con l’avvicinarsi della fine del mandato britannico e il rilascio ufficiale del Piano Dalet, le milizie sioniste intensificano gli attacchi. Il 9 aprile è il turno di Deir Yassin, un villaggio a ovest di Gerusalemme etichettato come “non pericoloso” dalle stesse fonti militari israeliane, la cui unica colpa è quella di sorgere in un’area che l’entità sionista è determinata ad annettere. Il villaggio viene circondato alle prime luci dell’alba, e dei circa 750 residenti oltre un centinaio vengono barbaramente uccisi – inclusi donne, bambini e anziani – facendoli saltare in aria dentro le proprie case e mutilandone poi anche i cadaveri. Altri 150 vengono fatti prigionieri e trasportati nei vicini quartieri ebraici di Gerusalemme, dove sono costretti a sfilare in una sorta di macabra parata celebrativa. Entro la fine della giornata, nel villaggio rimangono solo cadaveri e macerie; le milizie ebraiche si assicurano di saccheggiare tutto il saccheggiabile. Deir Yassin passa alla storia come uno dei massacri più atroci del 1948, e i racconti dei sopravvissuti giocheranno un ruolo fondamentale nel diffondere panico e terrore, spingendo gli abitanti dei villaggi vicini a fuggire prima dell’arrivo delle milizie.
A poco più di un mese di distanza, alla vigilia del ritiro definitivo delle truppe britanniche, Ben Gurion dichiara la nascita dello Stato di Israele. Forte del piano di pulizia etnica in corso e dei risultati già raggiunti, la leadership sionista ignora deliberatamente quei due anni di transizione stabiliti dalla Risoluzione 181 e, soprattutto, i limiti territoriali imposti dal Piano di Partizione.
Il 9 luglio le truppe israeliane attaccano Lydda e Ramla, due città situate in un’area che la Risoluzione 181 ha assegnato ai palestinesi. Sono obiettivi particolarmente importanti per l’entità sionista: sulle macerie delle due comunità verranno costruiti l’aeroporto di Tel Aviv e il principale nodo ferroviario di Israele. Le persone uccise durante l’attacco sono oltre 400, mentre quelle costrette a lasciare le proprie abitazioni a piedi sono circa 70mila. Il lungo esodo forzato verso Ramallah diverrà tristemente famoso come “la marcia delle morte”: moltissime persone perderanno infatti la vita a causa della sete e della stanchezza.
Entro la fine del 1948, il numero di villaggi palestinesi spopolati e distrutti sono oltre 500. Su una popolazione indigenza di circa 1.8 milioni, il numero di persone spossessate e costrette a cercare rifugio internamente o nei Paesi confinanti è compreso fra le 750mila e il milione. I palestinesi rimasti entro i confini del neonato Stato di Israele sono solo 150mila: a loro verrà riconosciuta una cittadinanza di serie B, contrassegnata da pratiche discriminatorie legalizzate.
Nel dicembre del 1948 l’ONU approva la Risoluzione 194, che all’articolo 11 stabilisce il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Tale disposizione rimarrà completamente disattesa. Al contrario, nel corso degli anni sulle macerie dei villaggi palestinesi vittime della furia sionista sorgeranno insediamenti illegali e parchi nazionali. Questi ultimi, in particolare, sono tutt’oggi gestiti dal Jewish National Fund e sono un ottimo esempio di come lo Stato di Israele faccia ampio utilizzo delle operazioni di -washing – green, in questo caso – per camuffare i crimini commessi e creare una narrazione storica completamente falsata e basata sulla propaganda.
Il genocidio in corso a Gaza a partire dallo scorso ottobre ricalca perfettamente le modalità di azione applicate dalle milizie ebraiche durante la Nakba del 1948. Gli strumenti oggi a disposizione dell’IDF sono in grado di causare un livello di distruzione e sofferenza ancora maggiori, ma le radici concettuali rimangono sempre le stesse, immutate nel tempo: distruzione, epurazione, espulsione. Non a caso, le immagini delle folle di palestinesi in fuga a piedi verso la parte meridionale della Striscia sono state più volte sovrapposte alle fotografie dell’esodo del 1948.
Benché la pulizia etnica della Striscia di Gaza rappresenti un eclatante parallelismo con l’epurazione di 76 anni fa, occorre però ricordare che la Nakba non si è mai fermata. Le demolizioni sistematiche dei villaggi e delle coltivazioni in Cisgiordania, gli attacchi quotidiani dei coloni finalizzati a cacciare i residenti palestinesi, gli arresti e le uccisioni arbitrarie, il muro di separazione, i checkpoint, le strategie di desviluppo economico: fa tutto parte di un piano cominciato alla fine del XIX secolo con la nascita del sionismo. Un piano che non si è mai fermato e che ha travolto come uno tsunami una popolazione indigena colpevole soltanto di trovarsi su una fantomatica Terra Promessa.
E allora, chi invoca la pace e chiede una soluzione diplomatica che porti alla convivenza fra palestinesi e israeliani pecca di ingenuità. O ancora peggio, di onestà intellettuale. La storia dimostra chiaramente che il sionismo è una corrente politica che si basa interamente su principi di supremazia razziale, e che fin dai suoi albori si serve di metodi e strumenti coloniali per raggiungere i propri obiettivi. Non è questione di parti politiche, di destre o sinistre: Israele è uno stato costruito sul sionismo. Israele è il sionismo, indipendentemente dal leader o dal partito del momento. E, sempre come la storia insegna, la strada maestra per la liberazione dei popoli oppressi e soffocati dalle catene del colonialismo è una: la resistenza armata.